XXVI DOMENICA T.O. – Anno B
(Num 11,25-29; Sal.18; Giac 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48)
Oggi abbiamo continuato la lettura del capitolo 9 del Vangelo di Marco. Domenica scorsa abbiamo visto Gesù, seduto con l’atteggiamento del Maestro, insegnare cose fondamentali. I discepoli avevano discusso di autorità e di prestigio personale e Gesù, pazientemente mostra loro che i valori umani vanno rovesciati: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”.
Ora ci troviamo di fronte ad un altro episodio. Questa volta è Giovanni che cade nella chiusura della logica umana, proprio Giovanni, il discepolo prediletto del Signore, l’autore del Quarto Vangelo, delle lettere che fondano la Chiesa sulla carità, del libro dell’Apocalisse, in cui annuncia il futuro di Dio, il discepolo che ha maggiore confidenza con il Maestro, tanto da appoggiare il capo sul suo petto all’Ultima Cena, il discepolo in cui il Signore ha tanta fiducia da affidargli la Mamma sua, dall’alto della croce. Eppure neanche lui è capace di comprendere lo spirito del messaggio di Gesù. È importante per noi renderci conto che neanche Giovanni aveva capito: impariamo a non scoraggiarci, a non arrabbiarci se tante volte ricadiamo negli stessi difetti. Impariamo ad essere grati allo Spirito Santo che agisce nella Chiesa agendo nei nostri cuori, che facendoci vedere quello che siamo, ci fa capire come dovremmo essere. La mentalità dei gruppi, che, chiudendosi su loro stessi, rifiutano gli altri, si ripete costantemente. L’atteggiamento degli Israeliti nel deserto, che abbiamo ascoltato nella prima lettura e, oltre 1350 anni dopo, quello dei discepoli di Gesù è sempre lo stesso: impazienza e rifiuto per quelli che non appartengono al proprio gruppo. “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e glie lo abbiamo vietato, perché non era dei nostri” dice Giovanni a Gesù, così come Giosuè aveva chiesto a Mosè di proibire che quanti erano rimasti nell’accampamento profetizzassero. I discepoli non riescono a capire che l’appartenenza ad un gruppo non ha valore per il Signore e non tollerano che qualcuno che “non è dei nostri” possa agire come loro. Essi sono caduti nell’equivoco ed identificano l’appartenenza al gruppo con la persona di Gesù, tanto da pensare che possano seguire Gesù solo quanti entrano nel loro gruppo. Ma il Maestro chiarisce l’ambiguità: “Chi non è contro di noi, è per noi”. Un antico papiro egiziano termina il discorso di Gesù con queste parole: “chi è oggi lontano ci sarà vicino”.
Sia il libro dei Numeri che il Vangelo di Marco ci fanno lo stesso ammonimento: non possiamo pretendere di impadronirci dello Spirito, dei doni di Dio. Egli può agire anche fuori del gruppo che Gesù stesso ha formato. Né i discepoli, né la Chiesa che su di loro è fondata, possono dire agli uomini: “Seguimi!”. Può dirlo solo Gesù in prima persona. Solo quando sono strettamente uniti a lui i discepoli sono davvero Chiesa. Senza Gesù sono associazioni, magari sacre, ma non Chiesa che è presenza di lui. Lo Spirito penetra nel cuore degli uomini nei modi più diversi. Anche Cicerone lo aveva capito quando scriveva a Quintiliano di non considerare avversari i diversi: quelli che non sono contro di noi, sono con noi. Lo aveva capito prima che Gesù nascesse. Molto più tardi, all’inizio del Rinascimento, Erasmo invitava a non guardare se gli altri seguono noi, ma solo se seguono Gesù.
Ho fatto questi riferimenti non per sfoggio culturale, ma perché così siamo aiutati a capire meglio anche l’espressione forte di Gesù a proposito dello scandalo: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola da asino e lo buttassero in mare”. I piccoli, i poveri, sono gli uomini e le donne che cercano la verità senza l’appartenenza esplicita alla fede e si spendono per la socialità, per la pace, per la giustizia, per abbattere le barriere della disuguaglianza, al di fuori dei confini della Chiesa. I credenti che li fanno sentire fuori dalla comunità sono loro di inciampo, li scandalizzano. Così come scandalizza lo stesso Giovanni con la sua intolleranza verso quanti non appartengono al gruppo. È lo scandalo del clericalismo, che risorge continuamente all’interno della Chiesa: lo Spirito è libero di agire dovunque nell’umanità. Non bisogna seguire un gruppo, ma Gesù. Lo scandalo, l’inciampo sul cammino della fede, non viene da fatti esterni, che riguardano il sesso o i soprusi economici e finanziari. Bisogna spostare l’attenzione dai fatti esterni all’atteggiamento del credente. Lo scandalo nasce quando il credente si appropria del dono di Dio, come sua proprietà privata, decidendo chi può averne parte e chi non può.
Analizziamoci. Se scopriamo nel nostro agire atteggiamenti che impediscono il rapporto con il fratello, estirpiamoli. “Se la tua mano … se il tuo piede ti scandalizza, taglialo…” Il comportamento, le situazioni, non hanno importanza. Conta solo l’amore che è nel cuore dell’uomo. Nel nostro agire personale, come in quello dell’altro che incontriamo sulla nostra strada, conta solo l’amore. Dove c’è amore c’è salvezza. Così Gesù mandò in pace la peccatrice che gli lavava i piedi con le lacrime e li asciugava con i suoi capelli, dicendo: “Molto le è perdonato perché molto ha amato”. Non posso mai giudicare l’altro. Se egli vive nell’amore non si può dire che non è “dei nostri”. Egli è “nostro” in Gesù, se c’è l’amore.
Siamo chiamati a gioire per il bene che c’è nel mondo. L’Eucarestia è ringraziamento anche a nome di quanti “solo il Signore conosce la fede”. Quando Papa Giovanni era Nunzio apostolico in Bulgaria, un seminarista della chiesa ortodossa gli chiese di entrare in un seminario cattolico. Angelo Roncalli gli rispose ringraziandolo per le sue parole, ma esortandolo a restare nel suo seminario e a ricevere là, con i suoi, l’ordinazione, aiutando la sua chiesa a vivere la fedeltà al Vangelo. E concludeva dicendo: “Ci rivedremo in paradiso”. Dire che non è bene il bene fatto da un altro, perché non è della nostra stessa fede, è bestemmiare il Vangelo. Il Signore dicendoci di tagliare la mano o il piede che scandalizzano, ci esorta a tagliare quanto in noi è avversione per gli altri, per chi non ci segue, “non è dei nostri”. Molti “fuori dall’accampamento” sono voce di Dio perché operano per la giustizia, per gli ammalati, per i bambini, per gli emarginati. Sono tutti discepoli di Gesù, anche senza saperlo.
Papa Giovanni Paolo II, nella sua lettera all’inizio del terzo millennio, ci esorta a domandare al Signore di vedere tutto quanto di positivo è nell’altro, per accogliere e ringraziare. Il bene compiuto dall’altro è un bene per me, oltre che per chi lo ha ricevuto. Anche nelle nostre famiglie, guardiamo al bene che ciascuno compie, non ad altro. Chi oggi ci sembra lontano, domani ci sarà vicino.
Da qualche domenica leggiamo nel Vangelo di Marco il racconto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, verso la passione, verso la croce. Marco mette insieme molti insegnamenti di Gesù, perché questo viaggio sia, anche per quanti lo leggeranno, un cammino di crescita nella fede, una scuola di discepolato alla luce della croce.
Marco racconta di Giovanni, come un portavoce del gruppo, che presenta il caso di un esorcista che scacciava i demoni, invocando il nome di Gesù, pur non appartenendo al gruppo che lo seguiva. Egli si conformava alla consuetudine diffusa di guarire usando il nome di un taumaturgo, in questo caso quello di Gesù. Giovanni si sente colpito nella propria sensibilità di “intimo” del Signore, di discepolo chiamato direttamente da Lui: è Giovanni che appoggerà il capo sul petto del Signore durante l’Ultima Cena, ai piedi della croce a lui sarà affidata Maria, egli sarà l’autore del quarto Vangelo. Ora reagisce con emotività intollerante, condivisa dagli altri: “glielo abbiamo vietato” egli dice e domanda una conferma a Gesù che risponde con una parola che stupisce: “chi non è contro di noi è con noi”. Potrebbe sembrare una risposta benpensante e addirittura di comodo, presente anche tra i cristiani: “chi oggi è lontano, domani vi sarà vicino” testimonia con fiducia un antico papiro cristiano.
In realtà Marco dona a chi legge un’espressione chiara del pensiero del Signore, che è come l’inaugurazione di un modo di guardare la realtà, destinato a diventare cultura, tradizione, nelle comunità cristiane: è una prospettiva diversa da quella degli uomini. Giovanni, il discepolo particolarmente vicino a Gesù, è incline all’intolleranza e deve correggersi.
La liturgia evidenzia la necessità della modificazione di atteggiamenti intolleranti anche nella prima lettura con l’esempio di Giosuè, collaboratore strettissimo di Mosè e suo successore nella responsabilità di guida del popolo ebreo. Anche lui si scandalizza per un atteggiamento analogo: vorrebbe cacciare due che profetizzano nell’accampamento, senza essere nel gruppo dei prescelti. Mosè gli risponde: “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore…”.
Marco sembra dire alla Chiesa nel momento intimo e solenne dell’Eucarestia che anche i discepoli più consapevoli possono essere portatori di mentalità di privilegio, che nessun credente è immune da questo pericolo. E, nel suo racconto, presenta un Gesù che non ambisce a riconoscimenti, che non ha a cuore gruppi elitari, ma è ricco di tolleranza e di magnanimità, atteggiamenti che devono accompagnare la Chiesa nella sua presenza nel mondo: “chi non è contro di me, è per me”. Quello di Gesù è un invito dolce e fermo del suo spirito grande, che viene da Dio, Padre di tutti, e perciò capace di valorizzare ogni espressione di bene, da ovunque venga.
Marco continua la formazione, mostra gli apostoli che non litigano solo per il primo posto, ma si appoggiano ai privilegi. Invita a specchiarsi in loro e ad accogliere l’insegnamento del Signore che rifiuta il sensazionalismo e valorizza il gesto semplice del bicchiere d’acqua umile e nascosto. “È meglio essere cristiani senza dirlo, che dirlo senza esserlo” (Ignazio di Antiochia, agli Efesini 15) scriveva Ignazio di Antiochia, nel II secolo.
Abbiamo qui una chiave per leggere la seconda parte del brano, con i tre detti sconcertanti sullo scandalo, su quello che è ostacolo all’autenticità del discepolato non solo in quanto viene dall’esterno, come mentalità ed esempi altrui, ma in quanto è frutto delle disarmonie di vita, personali e di gruppo. Marco insiste: “Se la tua mano ti scandalizza… se il tuo piede ti … se il tuo occhio ti…”. C’è qualcosa che ostacola anche nel discepolo e Marco colora con tinte drammatiche le conseguenze della complicità con la mentalità comune la necessità dell’autodisciplina. Il suo è un invito non al fondamentalismo etico, ma a riflettere e ad interrogarsi su quanto può diventare motivo di immaturità nella fede e, per conseguenza, ostacolo per quanti la cercano. Via della croce, ci dice, è assumere con responsabilità la fatica della crescita nella fede, non per la perfezione della propria persona, ma per la luce dell’umanità, che sta a cuore al Signore.
Gesù, infatti, è venuto a cercare, con infinito amore e pazienza, il bene, dovunque si trovi, perché diventi profumo davanti a Dio. Il suo cuore, appassionato alla vita che gli brucia dentro (come abbiamo ascoltato domenica scorsa) si accompagna all’ansia di “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc.19,10). Lo Spirito lo guida ai momenti, anche forti, della proclamazione della verità e a quelli dell’accoglienza fiduciosa. Marco invita chi lo legge a superare la grettezza umana, ad aprire il cuore ad ogni uomo, valorizzando il bene che compie pur senza appartenere alla Chiesa, e portandolo a Lui con la preghiera eucaristica che rende i credenti idonei a “farsi voce di ogni creatura”, quindi anche di chi non si riconosce nella fede cristiana.
La tolleranza del Signore esclude la puntigliosità dell’ortodossia a tutti i costi, per privilegiare quanto è fatto per amore, con la “buona volontà”, con il cuore. Marco ci dice che un atteggiamento settario è contrario allo spirito di Gesù, e ce lo mostra in un contesto di pregiudizio come colui che promette la “ricompensa” che vuol dire la “vita nel Regno di Dio” a chi dona anche un solo bicchiere d’acqua per la dilatazione del bene. Chi opera in questo modo non è un simpatizzante esterno, ma un figlio del Padre dei cieli, perciò un fratello per i cristiani. La Chiesa del primo millennio ha vissuto con forza l’incontro con culture altre da quella cristiana; poi è venuto il tempo della paura, dei tribunali, delle crociate. Ma nel XIII secolo Francesco di Assisi ha rotto la paura ed è andato dal Sultano per aprirlo al dialogo. E l’umanista Erasmo potrà scrivere: “Non bisogna badare se ci segue, ma se annuncia il nostro nome”.
È dunque importante, per chi voglia seriamente seguire Gesù sulla sua strada, la vigilanza su se stessi per togliere ogni atteggiamento che possa essere di ostacolo al dialogo con l’umanità, allontanandola così da Dio.
Ed è importante, nell’attualità, essere ottimisti e capaci di dare fiducia per tutto il bene che tutti, donne e uomini del popolo dei “cristiani anonimi”, compiono nelle più diverse situazioni.
Domandiamo al Signore il dono della longanimità, che libera dall’impazienza e ci fa accogliere i fratelli nella diversità, perché figli del Padre nei cieli e fratelli nostri.
Il cammino verso Gerusalemme continua, continua la scuola per i dodici. Marco riferisce alcuni insegnamenti del Signore sulla comunità che dovrà formarsi ed estendersi e su come comportarsi al suo interno: è il cammino di fede da cui nascerà la Chiesa.
Prima di tutto un avvertimento di carattere generale : la comunità si dovrà guardare dall’attribuirsi troppa importanza, fino a lasciarsi condurre dalla grettezza gelosa nei confronti di quanti saranno indotti dall’ammirazione di Gesù ad operare il bene “nel suo nome”, anche senza essere esplicitamente fedeli e discepoli. La chiamata alla fede non si esaurisce nell’appartenenza alla comunità, ma punta ad accogliere e condividere la vita dello Spirito che il Risorto dona a tutti.
Marco dice che Gesù teme uno zelo falso, un’intolleranza che nulla ha a che vedere con la passione per il vangelo, che rivendica diritti di appartenenza privilegiata, di anzianità e di fedeltà su chi viene affascinato dalla misericordia di Dio che Cristo svela e si accosta con fiducia alla comunità. “Non è dei nostri” è una rivendicazione radicale di appartenenza che può diventare pretesa di “potere” sulle coscienze nelle quali Dio è libero di agire secondo la propria iniziativa, proponendosi nel rispetto e con pazienza. Due domeniche fa Marco ci ha riferito la resistenza di Pietro alla via della croce, qui è Giovanni, il discepolo prediletto. C’è un ambiguità in lui. Il gruppo diventa autoreferenziale : “volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. La chiamata alla fede è innanzitutto invito a seguire Gesù ed egli non ama il fondamentalismo intransigente con l’altro. I membri della comunità non dovranno nascondersi che l’egoismo, sottile, si può insinuare lì dove si pretende di avere la specializzazione del bene e che perciò occorre vigilare ed essere umili. E lavorare per recidere con decisione la mala pianta del particolarismo, che si annida nella gelosia e nella chiusura verso quanti operano il bene nella diversità delle culture e dei servizi. Gesù dice una parola molto severa su chi cerca di ostacolare “uno di questi piccoli che credono in me”.
Le espressioni di Gesù sullo scandalo, che è ostacolo per chi in sincerità di intenzioni e di gesti opera secondo il vangelo, anche senza appartenere alla comunità, e la parola di Giacomo nella seconda lettura, fanno meditare per la loro gravità. Invitano a riflettere bene sulla pretesa dell’affermazione “non ci seguiva”, che sembra anteporre la comunità al Signore stesso, quasi privandolo della libertà sovrana di comunicare il suo Spirito anche indipendentemente dalla vita strutturata della comunità istituzionale. Il Regno di Dio, come i Padri comprenderanno ed insegneranno, è più ampio della Chiesa, che è segno e strumento di salvezza, perché il Signore Risorto ha promesso di operare attraverso il suo servizio fedele, senza – tuttavia – per questo, imprigionarsi in essa. Le braccia della croce arrivano anche dove non è arrivata la predicazione del vangelo, perché esso risuona in ogni cuore abitato dallo Spirito. A Giovanni che dice: “non ci seguiva”, Gesù – sovranamente – risponde: “chi non è contro di noi, è per noi”.
È una risposta che abbatte ogni barriera ed insegna ai discepoli che devono essere di tutti gli uomini e che tutti gli uomini sono loro. Non dovranno catalogare gli uomini, classificarli, non saranno gli aggettivi a contare, ma l’umanità: Cristo è uomo, allora tutti gli uomini sono Cristo. I dodici imparano, direttamente da Gesù, e ci trasmettono l’ammonimento a non essere intolleranti, ma a vedere, nei tanti che si avvicinano loro “nel nome di Gesù”, dei simpatizzanti che non hanno certo un animo ostile. Simpatizzante è chiunque non si presenta esplicitamente come nemico, chi non è “contro di noi”. Il Signore si mette dalla loro parte e li include nel “noi” della sua comunità, identificandosi come destinatario dell’amore che quei simpatizzanti vivranno, fino alla misura del bicchiere d’acqua, solo apparentemente insignificante. Con fiducia un papiro egiziano cristiano aggiunge alle parole di Gesù un detto: “Chi è lontano, vi sarà domani vicino”.
La Chiesa dovrà imparare a non pretendere di annunciare e vivere il vangelo da sola. Oggi lo si comprende più che nei tempi passati, ma già nell’epoca degli umanisti Erasmo scriveva: “non bisogna badare se ci segue, ma se annuncia il nostro nome”.
Chiediamo, nella preghiera, che si radichi in noi quell’appello al dialogo che il vangelo propone, dialogo che è la Parola tra i due che si incontrano. È importante uscire dalla paura, dalla preoccupazione di salvaguardare ad ogni costo uno “spazio” che è “nostro”. È urgente uscire oltre la soglia dove gli altri, che riteniamo fuori dallo “spazio”, stanno vivendo il bene nel nome d Gesù.
Chiediamo di essere liberi da schemi e desideri pregiudiziali, dalle parole che fanno chiasso dentro e suscitano paure.
Domandiamo la gioia della scoperta del divino nel cuore dei fratelli e delle sorelle, la gioia riconoscente per il capire che “chi non è contro di noi, è per noi”.