XXVIII DOMENICA T.O. – Anno B
(Sap 7,7-11; Sal.89; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30)
Il viaggio di Gesù verso Gerusalemme continua. Nel Vangelo di Marco, lungo questo cammino egli dà gli insegnamenti più importanti. Domenica scorsa abbiamo ascoltato la sua spiegazione ai discepoli della realtà bella e difficile del matrimonio, oggi ci parla del nostro rapporto con il danaro, con l’avere, con il possesso.
“Un tale gli corse incontro…” ci dice il Marco. Quando le persone hanno, sì, dei valori umani, anche in buona fede, ma sono possedute dalla preoccupazione del possesso, nel Vangelo non hanno un nome, forse proprio perché non sono considerate mature. In Luca il ricco che sedeva alla mensa, mentre Lazzaro giaceva fuori, non ha un nome, anche se la tradizione lo chiama Epulone. Anche ora questo “tale” che non riesce a fiorire nell’amore, non ha un nome davanti a Dio. Tuttavia egli ha un’autenticità. In ginocchio davanti a Gesù gli chiede: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Capisce che non basta l’appartenere ad Israele: deve fare qualcosa per Dio. Gesù rifiuta di essere chiamato buono, perché vuole invitarlo a rivolgersi solo a Dio per crescere spiritualmente. Lo invita ad obbedire alla legge antica e glie la ricorda, prestando attenzione soprattutto alla seconda tavola, quella dei comandamenti che riguardano proprio il nostro rapporto con il possesso. Lo invita a guardare in quella direzione, aggiungendo l’invito a “non frodare”, che non è esplicitamente nei dieci comandamenti, ma è presente in tutta la Bibbia. Il Padre esprime la sua volontà quando ci invita a privilegiare la relazione. Il capitolo 24 del Deuteronomio è sempre di grande attualità: “Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e vi volge il desiderio; così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato” (Dt.24,14-15). Non frodare i contributi da dare a chi lavora, rifiuta il condono, se avverti che è una frode, presta attenzione al tuo modo comportamento davanti alla società: se sei commerciante non accaparrare, qualsiasi lavoro tu faccia, renditi conto che è un sevizio al fratello.
L’interlocutore, alle parole di Gesù, rispose: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Siamo al centro del racconto. “Allora Gesù, fissatolo lo amò” e gli propose un oltre, lo spazio grande dell’avventura con Dio, libera dalla sicurezza rassicurante dei beni. Si tratta di un passo riferito anche da Matteo e Luca, che si sono serviti dello scritto di Marco, il più antico degli evangelisti: sono parole dette certamente da Gesù in persona, gesti compiuti realmente da lui. Forse Gesù si rivolse all’uomo con un gesto di affetto tangibile, di profonda confidenza, come quando ci domanda qualcosa di personale, ci chiede di vivere con lui la malattia, la precarietà… A volte tutti noi siamo presi dalla paura nei confronti delle richieste di Dio, ma Gesù ce la toglie con un atto di amore esclusivo: è solo dopo averci amati così che ci chiama a seguirlo e ci chiede di staccarci dal possesso dei beni, per privilegiare il rapporto tra le persone. Questa è la via per entrare nello spazio dell’eternità. Guarda con fiducia all’esigenza di radicalità che è in te, ci dice il Signore, essa è un’attesa di qualcosa di più grande, una malinconia nei confronti della mediocrità, che ci chiama a vivere più intensamente. La nostalgia che abbiamo nel cuore, cui non riusciamo a dare un nome, è l’oltre che Dio ci indica, promettendoci il centuplo. Ma “il tale” che si era avvicinato a Gesù non se la sentiva di aderire al suo invito di vendere tutto per seguirlo e si allontana afflitto. È un momento importante per Gesù: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!”. Con affetto e commozione si rivolge ai discepoli, chiamandoli figli (è l’unica volta nel Vangelo di Marco!) e spiega loro che non avranno la vita se non impareranno a vincere il possesso, le ambizioni, le gelosie, se non cercheranno di guardare quello che è piccolo davanti a Dio, facendosi piccoli a loro volta. Come dice Bonhoeffer è necessario imparare a distinguere l’ultimo dal penultimo, ad amare le cose solo nella misura in cui ci permettono di amare Dio e i fratelli. Il fine ultimo è solo lì, nell’amore, nella relazione.
Di fronte allo sbigottimento dei discepoli, al nostro sbigottimento, Gesù ci dice una cosa molto importante: se ci sembra impossibile privilegiare l’amore non ci dobbiamo spaventare perché “Quello che è impossibile presso gli uomini non lo è presso Dio. Tutto è possibile a Dio!”. La forza che ci viene dalla presenza di Dio è la Parola che fonda tutta la Chiesa. A Mosè il Signore disse “Io sarò con te” e lo accompagnò nella marcia del popolo dalla schiavitù alla libertà. Annunciando la nascita di Gesù, l’angelo rassicurò Maria con queste stesse parole: “Nulla è impossibile a Dio!”. Dio sostiene tutti quelli cui chiede di staccarsi dal possesso, dal possesso delle ricchezze come da quello delle proprie sicurezze, dei propri progetti.
Gesù non popone la povertà, ma la comunione, che è la presenza della vita eterna già nell’oggi. Il discepolo non deve pensare al premio nel Paradiso, ma fare della terra luogo di fraternità. Quando ci saremo liberati dall’ansia del possesso verso le cose come verso le persone sperimenteremo nel presente il centuplo di quanto avremo lasciato “in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi …”. Sperimenteremo qui la libertà di amare, donataci dalla accoglienza della Parola, che, come dice la seconda lettura, è efficace come una spada, che non punisce, ma scende nella nostra anima per darci la vita e portare frutto, per permetterci di passare dalla logica dell’avere a quella dell’essere. È qui la vera medicina del nostro tempo: vivere sempre più la relazione con ogni fratello, aver cura in particolare dei poveri per realizzare la fraternità umana.
Facciamo nostre le parole della prima lettura: “Pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza… la preferii a scettri e a troni… l’amai più della salute e della bellezza… Insieme ad essa mi sono venuti tutti i beni”.
Marco raccoglie insegnamenti di Gesù a riguardo del possesso. Li inserisce nei discorsi dell’ultimo viaggio verso Gerusalemme, perché i discepoli li ricordino alla luce della sequela della croce, per evitare rischi di ambiguità. Fin dall’inizio la Chiesa non ha considerato questi insegnamenti come destinati a cristiani “particolari”, gli eremiti, le vergini, quasi “classe elevata”, separata dalla moltitudine dei credenti.
Marco vuole che chiunque segue Gesù sia disposto a sentirsi dire da Lui: “qualcosa ti manca”, a lasciarsi indicare il punto critico dell’esistenza. Quasi a dire che, quando il Signore chiama qualcuno a seguirlo, lo prende dal suo lato debole, perché lo chiama a sé tutto intero. Così la chiamata alla croce entra in tutte le situazioni del credente e Marco sembra voler dire che questa esigenza non si limita al tempo storico di Gesù, ma rimane nel tempo della Chiesa. Non è un’imposizione possessiva, è un’esigenza di amore – “fissatolo lo amò” – che scende nella profondità del cuore, fa comprendere quello che “manca”. Pensiamo al tormento di Agostino nel libro VIII delle Confessioni, allo stesso tempo renitente e affascinato dalla chiamata dello Spirito.
“Che cosa devo fare?”: è una domanda che conosciamo a riguardo di problematiche senza esito, per cui non ci sentiamo idonei e cerchiamo le parole e la forza per la decisione. Ed è una domanda che prende il cuore dell’uomo a riguardo di Dio: è allora che si intuisce che non si può attendere risposta se non da Dio solo e che qualsiasi altra risposta sarebbe inconsistente. Anche la stessa fedeltà, centrata sull’osservanza dei comandamenti, potrebbe non essere sufficiente per lo spessore della domanda. Da giovani, ma anche da adulti, possiamo essere abitati da questa domanda, anche dolorosamente.
Cogliamo lo sguardo e il gesto affettuoso – il verbo dice un gesto concreto di amore. Sono non tanto per una lode, quanto per un invito: quello che manca è l’andare oltre il prescritto, dai comandamenti per seguire Gesù più da vicino, che è il bene primario.
Vendere e donare non solo in senso finanziario, per seguire il Signore povero, sono i segni di un’adesione personale che non attende conforto da altri.
Perciò l’aria che si respira è quella della croce.
L’indisponibilità produce l’allontanamento, il fastidio, ed evidenzia la pericolosità del possesso, anche per gli stessi discepoli (identificabili nella parola “figlioli”) quando si troveranno in situazioni analoghe, che possono essere molte. Sta al credente far diventare veramente piccolo quello che è piccolo davanti a Dio. Ed ottenere, con la preghiera umile, che sia reso possibile l’impossibile per l’uomo.
Gli ultimi versetti parlano di una ricompensa ai discepoli che avranno vissuto scelte radicali per il Vangelo “già al presente” oltre che “nel futuro”.
Marco lo sottolinea, e induce a scorgere la ricompensa al presente, nelle stesse comunità, là dove quelli che si donano per il suo bene trovano una realtà di affetto e di accoglienza “cento volte tanto”. È la realtà dei primi tempi e di sempre.
Gesù dice a Pietro che tutti quelli che si uniscono a Lui, e fanno del Vangelo la regola della vita, sperimentano di ricevere più di quanto hanno dato, la comunità come casa e famiglia propria.
Non è invito al ghetto spirituale, ma alla vita con Lui.
Così, sulla strada della passione, i discepoli imparano che le rinunce per il Vangelo non sono in funzione di una perfezione personale, ma contribuiscono a creare una umanità nuova, una comunità nella fraternità. Chiudersi nel possesso sarebbe ostacolo a questa realtà nuova e non lascerebbe Dio libero di realizzare il ristabilimento della dignità degli uomini impedito dall’egoismo, ristabilimento che a noi appare impossibile.
Forse, tra le grandi linee del Vangelo, la più sorprendente per noi occidentali, figli della cultura del possesso, è quella di un Gesù che chiede chiaramente a molti uomini, come espressione concreta della fede in Lui, che si liberino, non solo interiormente, ma anche in modo esteriormente visibile, del legame con l’avere autorità, con l’essere valorizzati, con la sicurezza che deriva dal possedere.
Marco sembra far riflettere sul fatto che anche il fare della comunità la propria casa può essere ambiguo, perché potrebbe portare a fare affidamento nella comunione fraterna come ricompensa alla rinuncia. Gesù appare come colui che va oltre i discepoli, che cammina avanti a loro e da solo affronta la spesa della propria vita, la morte per amore. Egli chiama perciò i suoi a convinzioni e a decisioni personali e concrete, che non dipendono dal consenso di altri che sé.
Perciò la Chiesa, fin dall’origine, affermando il carattere neutrale della ricchezza da cui tanto può dipendere, ne afferma l’obbligo sociale di chi la possiede, come testimonia Clemente di Alessandria, che, nel secondo secolo, nella città più ricca dell’Impero, scriveva:
“Tutte le cose sono proprietà comune e i ricchi non devono pretendere per sé più degli altri”
Lasciamoci ricordare dal Signore: “una cosa sola ti manca”.
Il disagio dell’uomo che incontra Gesù, propostoci oggi dal vangelo di Marco è un disagio che il nostro tempo conosce frequentemente. Il senso di malinconia e di vuoto accompagna non solo i giovani; la sensazione di qualcosa che manca perché si possa vivere in pienezza, anche se non si è in grado di definirlo. Quanti “onesti e infelici”!
Marco, ancora una volta, non definisce e non condanna la situazione dell’uomo che corre verso Gesù per interrogarlo, ma regala a chi legge il suo racconto la reazione del Signore: “fissò il suo sguardo su di lui, lo amò”. Gesù entra in quella malinconia e la illumina con una serie di verbi a coppia: “va – vendi; dallo – avrai; vieni – seguimi”. Domandiamo allo Spirito di donarci la sua illuminazione.
Gesù introduce, nella infelicità di chi avverte di non vivere pienamente, la nuova regola, quella che egli propone, della pienezza di vita: è il dono di sé, dice, che moltiplica le relazioni; è la sobrietà per la condivisione che dona la felicità; è lo spendersi il tesoro. Tutto al patto di rinunciare alla pretesa di autosufficienza, per vivere radicalmente e con fiducia il legame con lui, persona e parola, pensiero e vita concreta.
Marco ci mette ancora davanti alla reazione umana, allo stupore dei dodici che li conduce all’incredulità, allo scurirsi in volto di chi ha provocato la risposta del Signore, a motivo della paura che induce a desistere e riaccende la tristezza, soffocando la speranza. Marco descrive con attenzione lo scendere dello stupore nell’intimo del cuore, dal divenire “scuro in volto” al “se ne andò rattristato”. Era venuto di corsa e con entusiasmo (Matteo dice che era giovane) ed ora sparisce dalla scena, avvolto nella nebbia della tristezza, con il magone di chi vive il rifiuto di qualcosa che sembra più grande della propria capacità di adesione.
Mistero dell’uomo, anche credente, quel senso di paura che prende dinanzi all’esigenza della coscienza, che induce a fuggirla, andando incontro ad una più grande, malinconica solitudine. L’uomo del “no” diventa sempre più triste ed incapace di relazione. Scrive a riguardo s. Agostino:
“Tardi ti amai, bellezza antica e così nuova, tardi ti amai.
Sì, perché tu eri dentro di me ed io fuori.
Lì ti cercavo. Deforme mi gettavo sulle belle forme delle tue creature.
Eri con me, e non ero con te…
Diffondesti la tua fragranza e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, ed arsi di desiderio della tua pace”
(Agostino: “Confessioni” X,27-38)
Forse in questa domenica ci viene chiesto un momento di silenzio, in cui chiederci dove vogliamo andare e con che tipo di adesione.
Il commento di Gesù, per la scuola di fede dei dodici e nostra, dice che, se si rimane affidati alle proprie inclinazioni e paure, non è possibile decidersi per Lui e per il vangelo. Questa decisione è una grazia che occorre accogliere, non fondandoci sulle nostre capacità, ma sapendo che “tutto è possibile a Dio”, come la Bibbia ci dice nella fede di Abramo e di Maria.
Marco non vuole insegnare norme sull’uso del denaro, ma mostrare che cosa significhi, per un discepolo di Gesù, la libertà interiore dall’attaccamento: vissuta nella fede, la libertà è come uno spazio che si fa docile e capiente per accogliere l’iniziativa d Dio, per diventare “capaci di Dio”. Essa fa emergere, in chi gli si apre con fiducia, quel qualcosa di più di cui si avverte, con maggiore o minore chiarezza e continuità, la mancanza, e che perciò è già presente nell’intimo e attende di essere svegliata.
Ampliare lo spazio interiore. Non è solo questione di possesso da potare e da cui separarsi; può essere il successo, le idee che ci si fa della vita, l’immagine di Dio stesso. Arrivare a farsi guardare da Gesù che dirà quello che manca. La sua parola aiuta a riconoscere quello che impedisce di vivere e aiuta a vincere la paura, perciò è sorgente di libertà. Capire che il possesso favorisce la maschera del vivere sociale e impedisce di arrivare alla verità di se stessi, che il possesso può rendere posseduti, è il grande dono di verità che lo Spirito, dono di Gesù, fa all’intimo della coscienza umana. Perciò non si va via tristi dall’incontro con Gesù, ma liberi dalla preoccupazione di se stessi, che spinge a rassicurarsi generando l’ansia di possedere sempre di più, oggetti, situazioni, persone. Gesù capovolge la logica e parla della libertà che si espande in una dimensione inimmaginabile: “cento fratelli e sorelle e madri e figli e campi…”
A Pietro stupito e forse un po’ presuntuoso nella rivendicazione di quanto già ha fatto, Gesù dice : se farai il passo di lasciare la casa esteriore, avrai casa dappertutto, perché dimorerai in Dio, che sarà la tua casa; se lascerai fratelli di sangue, avrai in dono una comunità che ti sarà scuola e stimolo di fraternità; se perderai per amore quello che è nato in te, sperimenterai nuova fecondità. Avrai un amore riconoscente per quello che Dio ti dona in continuazione.
Gesù è maestro di libertà interiore e ci vuol far vedere dove vuole condurre: in quello spazio in cui Dio stesso si fa dimora, in cui l’uomo trova pienamente se stesso e si sente a casa.
“Cosa devo fare per avere la vita eterna?”.
Forse l’interrogativo urgeva per la sensazione che mancasse qualcosa nel rapporto con Dio. L’inquietudine del cuore, che Agostino confessa come pena di ogni uomo che rifletta su se stesso, domandava all’interlocutore del Signore un passo, un impegno nuovo. Ed è proprio quello che Gesù, con commozione e affetto, gli propone: “Fissò lo sguardo, lo amò, gli disse: una cosa sola ti manca”. Ma si insinua la tristezza. Tristezza per i beni da lasciare, forse anche la tristezza ancora più grande per la constatazione della incapacità di essere disponibile alla proposta.
È la stranezza della situazione dell’uomo che ha paura di acconsentire a Dio pienamente e per questo rifiuto si trova ad essere ancora più prigioniero dell’inquietudine. La tristezza dell’uomo che si allontana non è segno di ribellione a Gesù, ma è il segno che l’uomo è stato colpito nel vivo, che è geloso di sé, non riesce ancora ad essere pienamente disponibile a Dio. Come per la radicalità dell’amore coniugale, di cui Marco ha parlato nei passi precedenti di questo capitolo 10 nella liturgia di domenica scorsa, radicalità che il Signore afferma possibile per il dono che Dio offre della sua grazia, così il saper dire di sì con prontezza alla richiesta del Signore di spostare gli interessi materiali che tendono ad impossessarsi dei pensieri e degli affetti dell’uomo, questa disponibilità è frutto dell’amore personale di Dio a cui “tutto è possibile”.
È la possibilità creduta da Abramo e da Maria di Nazaret. Che hanno sperimentato l’uno l’origine e la vita di un popolo nuovo, l’altra la maternità di Gesù, frutto di un verginità che non conosce uomo.
La fede sta dunque all’origine di ogni decisione di seguire il Signore, vivendo concretamente quello che domanda ai suoi figli nella diversità molteplice delle vicende umane.
L’episodio dell’uomo ricco – racconta Marco – lasciò un forte senso di sgomento nei primi discepoli e continua a suscitarlo nel lettore che si interroga su quello che Dio gli propone. È la pagina che ha cambiato l’esistenza de primi monaci, come per Antonio di Alessandria in Egitto, Benedetto a Montecassino, Francesco nell’abbraccio del malato di lebbra per le stradine di Assisi, tanti e tante, fino ad oggi. Le parole del Signore sembrano esigere la vendita di quanto si possiede per seguire Lui, il Maestro e la guida. Ma, ancora una volta, l’insegnamento si deve intendere non come una norma comportamentale, un elenco di quello che si deve distribuire e di quello che si può tenere. È l’invito ad una libertà interiore da ogni attaccamento che freni il cammino nella fede. Il possesso, infatti, può rendere posseduti.
A chi, nella sensibilità di fede, osserva i comandamenti, Gesù con affetto, senza giudicarlo né condannarlo, dice che c’è una misura oltre la rettitudine dei comportamenti, una via del “di più”, del “fino in fondo”, e invita a percorrerla dietro a Lui. Ripete “Io sono la via” (Gv.14,6). Le sue parole sono uno stimolo a lavorare dentro di sé, su di sé, a proseguire il cammino per una disponibilità senza riserve alla vita di donazione di sé per il bene dell’umanità. Così l’unico obiettivo di vivere il Vangelo conosce una molteplicità di strade, dalle esigenze diverse, forse non quella della libertà dal possesso, forse quella del distacco dal successo, forse il superamento dell’idea che ci si è fatta della vita, delle abitudini, delle relazioni umane e affettive, della stessa immagine di Dio e di se stessi.
Chi legge questa pagina del Vangelo di Marco sull’incontro del Signore con la persona preoccupata dei beni, chi leggendo prova il desiderio di giungere alla disponibilità della fede, deve lasciarsi guardare da Gesù, raggiungere dal suo amore personale, deve offrirgli il cuore nella preghiera, come ci ha detto il libro della Sapienza. Sarà lui a far capire che cosa impedisce la libertà, che cosa è dominato dalla paura di perdere quel po’ di sicurezza che si è ottenuto, senza di cui il pauroso non avrebbe pace. Se la paura, infatti, diventa più grande del desiderio, non resta che la tristezza.
Il Signore oggi ci invita a non andare via tristi, a fidarsi della sua capacità di rendere i cuori liberi e pacificati. Dio è ricco e vuole condividere i suoi beni con chi gli appartiene. Gesù lo dice a Pietro e a noi.
Ma per farlo desidera che i cuori siano liberi, senza irrigidirsi in preoccupazioni e paure che paralizzano e conducono di fatto al rifiuto di lasciare che Egli sia la strada da percorrere, nella sua Parola e nella sua volontà.
Gesù pronuncia il famoso detto del cammello e dell’ago, che sgomenta ancora di più chi lo ascolta, ma propone ancora l’infinita possibilità del Padre che può fare luce nelle menti e nei cuori, come avvenne per Zaccheo nel pranzo a casa propria, condividendo il cibo, con il ladro sulla croce, condividendo la morte, con Francesco povero e nudo, condividendo l’amore. Tutto a un tratto l’amore può far scoprire altri valori oltre le realtà che occupano il tempo e la mente, ma non sono del tutto appaganti e lasciano nell’inquietudine e nella tristezza.
Preghiamo per avere in noi lo spirito di sapienza:
“Ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni, nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile”.