XXIX DOMENICA T.O. – Anno B
(Is 53,10-11; Sal.32; Eb 4,14-16; Mc 10,35-45)
L’anno liturgico volge alla fine. Da un mese seguiamo Gesù nel suo cammino verso Gerusalemme, ascoltiamo il suo insegnamento ai discepoli, insegnamento che ci dice il suo stile di esistenza, il suo modo di intendere il potere. Oggi, a conclusione del capitolo 10, ascoltiamo la sua ultima lezione. Domenica prossima, insieme al cieco Bartimeo, domanderemo la luce, perché la sua Parola diventi regola della nostra vita.
Mentre Gesù prosegue nel suo cammino verso Gerusalemme, si fa più forte la resistenza dei discepoli ad accogliere la necessità della croce. Da una parte Gesù cammina sollecitamente alla testa del gruppo, dall’altra c’è la tentazione dei discepoli a saltare questa tappa, a rifiutare il senso di questo cammino verso Gerusalemme. Gesù continua pazientemente a correggere le loro illusioni: il Regno di Dio deve fondarsi sulla croce. Il linguaggio di Gesù è crudo. Parla di calice, parla di battesimo. Sono termini che già nell’Antico Testamento richiamano un destino di dolore. Anche noi, nella sofferenza diciamo che ci è toccato un calice amaro, che ci troviamo in un mare di sofferenza. Queste immagini richiamano alle comunità cristiane il Battesimo e l’Eucarestia, sacramenti che introducono alla percezione del Regno, come lo ha inteso Gesù, come vita di resurrezione, che deve passare attraverso le acque della morte, attraverso il calice della passione. Sono criteri diversi da quelli che muovono Giacomo e Giovanni quando chiedono al Maestro di sedere nella sua gloria uno alla sua destra e uno alla sua sinistra.
Il discepolo è chiamato a partecipare alla via del suo Signore non solo in maniera ideologica, astratta, ma accettando di dare tutta la propria vita, senza desiderare nessuna ricompensa. È questa disponibilità che fa dell’uomo un cittadino del Regno. Il Padre darà la sua gloria quando e come lo riterrà opportuno. Marco scrive quando i due discepoli avevano già subito il martirio. Giacomo morì di spada, primo fra i discepoli. Di Giovanni si sa meno. Certamente entrambi i discepoli sono passati attraverso la via di Gesù. La comunità considera martiri, in quanto testimoni, entrambi i fratelli, loro che, per la veemenza del carattere, venivano chiamati “figli del tuono”, loro che pur avevano avvertito tanta ripugnanza per la sofferenza, eppure hanno capito, hanno sperimentato, che il potere di Dio è nell’amore.
La Chiesa sa che l’insegnamento di Gesù si può realizzare nella vita dei credenti. È per noi un invito a prendere sul serio il Vangelo, anche quando ci sembra che esso ci porta ad essere perdenti nella nostra società, perché ci chiede di rinunciare al prestigio. Marco viveva nella società dove l’Imperatore era Nerone eppure ci dice che il potere dei potenti non è vero potere. Il Regno non viene nel segno del dominio, ma nel segno del servizio. “Fra voi non è così”, dice con forza Gesù. Il suo modello antropologico è altro rispetto a quello del mondo e per adeguarci ad esso è necessaria la conversione del cuore. “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire”, è l’insegnamento fondamentale di Gesù e Marco, nel riferirlo ha certamente presente il quarto canto del Servo di Jahvè – al capitolo 53 del libro di Isaia – molto opportunamente inserito nella liturgia odierna. La tentazione del potere è stata sempre presente nella Chiesa, nei Vescovi principi, nel Papa re. La Chiesa, ognuno di noi deve convertirsi alla volontà di perderci completamente, per amore. Come dice Isaia: “Il giusto mio servo giustificherà molti … io gli darò in premio le moltitudini…”. Leggendo gli Atti degli Apostoli vedremo che la moltitudine di quanti aderiranno alla Chiesa nascente sarà grandissima. La solitudine della morte di Nerone era vuoto totale, quella della morte del servo genera una moltitudine. Di fronte alla croce i dodici fuggirono. Ma sul trono della croce, uno alla destra ed uno alla sinistra di Gesù, vi saranno due malfattori, due poveri, persone senza diritti, condannati a morte. Nel testo originario di Marco, c’è un’aggiunta al versetto 27 del capitolo 15, che dice, riferendo il canto di Isaia: “E si compì la Scrittura che dice: ‘È stato messo tra i malfattori’ “. In questa ultima lezione di Gesù è tutto il suo insegnamento, il suo desiderio per i discepoli: che essi condividano, insieme a lui, la vita di quanti hanno il volto segnato dal peccato, da ogni miseria umana.
Oggi il Papa proclama Beata Madre Teresa di Calcutta. Ella ha scritto: il cristiano è il tabernacolo di Dio vivente. Se capiamo l’immensità dell’amore di Dio, trascorreremo la vita per testimoniarlo. Amare come Cristo ci ha amati, amare per donarci agli altri. Quando Gesù nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo ci chiede di dare da mangiare a quanti hanno fame, non parla solo della fame fisica, ma anche della fame di amore. Gesù ha sperimentato questa fame quando non è stato accolto dai suoi. La peggiore malattia di oggi è la povertà dell’anima, la povertà dell’inutilità, della solitudine. È una malattia peggiore della tubercolosi e della lebbra.
Questa è l’eredità che ci lascia Madre Teresa.
Nell’intimo del nostro cuore conciliamo queste due parole apparentemente antitetiche: beatitudine e servizio. Madre Teresa ha amato, ha servito fino al giorno della sua morte. Perciò è Beata nell’eternità.
(VV.32-34) Dopo aver riferito l’insegnamento del Signore sul possesso e sulle ricchezze, prima di donare le sue parole sull’ambizione e sul servizio, Marco inserisce il terzo annuncio della passione – il più completo e dettagliato, che abbiamo letto, anche se non è presente nella liturgia. È l’ultimo insegnamento solenne del Signore, in cammino verso Gerusalemme e il contesto della passione imminente accresce il peso e la drammaticità del pensiero di Gesù e la responsabilità dell’ascolto del singolo discepolo e della comunità intera che lo seguono. Marco sottolinea l’estrema solitudine del Signore con l’espressione su Gesù che “camminava davanti a loro” con tale decisione e radicalità da lasciarli “esterrefatti”, “terrorizzati” – secondo il significato letterale del verbo greco. La decisione inflessibile del Signore di donare la vita, che fa dire a Luca, al capitolo 9: “irrigidì il volto”, coinvolge non solo i Dodici, ma anche il gruppo più ampio dei meno intimi, “coloro che venivano dietro di loro avevano paura”. È l’immagine che Marco dona della sua comunità, ma è la profezia di ogni comunità futura, del popolo di Dio in cammino, sempre timido e pauroso della croce e del cammino del Signore, pur seguendolo. Ognuno di noi ne trova conferma nella propria storia personale.
“La Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra la persecuzione del mondo e la consolazione di Dio” – scriveva Agostino nel “De civitate Dei”, con una bellissima espressione riportata dal Concilio Vaticano II (in “Lumen Gentium”, 9) – “annunziando la passione e la morte del Signor, finché egli venga”.
Gesù sente di dover donare ancora una parola “in disparte” ai Dodici, per descrivere con estrema durezza i particolari della sofferenza che sta per arrivare, da quel “sarà consegnato”, che è preveggenza del tradimento da parte di uno dei suoi più intimi, in un intreccio misterioso tra perversità e crudeltà umana con il disegno di Dio, che è Amore e volontà di salvezza, e si attua anche attraverso la negatività umana: è la notte buia verso cui Gesù camminava. La tensione deve essere stata terribile.
(vv.35-40) Questo è il contesto in cui Marco pone la domanda di Giacomo e Giovanni, che, insieme agli altri, si mostrano lontani dal pensiero del Signore. A loro egli dice che berranno il calice e riceveranno il battesimo. In che senso potranno farlo? In Marco il battesimo di Gesù è collegato alla passione e alla morte e Paolo leggerà il battesimo cristiano strettamente legato alla morte di Lui: “per mezzo del battesimo… siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu resuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rom.6,4). I discepoli perciò partecipano al calice e al battesimo se sono pronti ad accogliere nel loro cammino la tribolazione, la persecuzione fino alla morte. Questi due discepoli sono “preferiti” non perché esauditi nella loro richiesta, ma perché sono inseriti nella logica di Dio. La loro domanda è vaga, generica, ma la risposta di Gesù è concreta. Quando, infatti, il Vangelo veniva scritto, i due erano morti martiri. Così Marco insegna che il discepolo non deve essere dominato dall’attesa di una ricompensa particolare, ma dalla disponibilità a partecipare alla croce di Gesù, con una sofferenza che è elevazione ad un livello di amore più grande, ad uno stare con Gesù in maniera sempre più piena.
(vv.41-44) La reazione dei Dodici è l’occasione per un ammaestramento particolare, affettuoso: ancora una volta “li chiamò a sé”. Con fine pedagogia Gesù prende a termine di paragone il comportamento dei grandi della terra, che abusano del potere e lo vivono a danno di coloro di cui sono responsabili: con sottile ironia è detto che “sembrano governare”. Gesù pone se stesso, alla luce della passione imminente, come fonte di un modo nuovo di proporre il governo nel servizio. Il suo insegnamento è talmente chiaro che ci si chiede come un cristiano possa pensare diversamente. In un libro del 1969 Joseph Ratzinger, allora solo professore, si domandava come si sia arrivati al punto che, con la svolta costantiniana, che portò alla identificazione della Chiesa con la società chiusa dell’occidente cristiano, i seguaci degli apostoli, ai quali era stato detto che dovevano cercare di non imitare i grandi di questo mondo, di colpo abbiano ritenuto giusto essere principi di questa società. E indicava in questo fatto un ritorno alla situazione precristiana e pagana.
La frase conclusiva presenta come ideale a cui ispirarsi il servizio di Gesù fino al sacrificio completo di sé. Fa riflettere: Gesù non rivendica alcun diritto per sé, neppure l’onore che il maestro in qualsiasi tipo di scuola attende dal discepolo. Al contrario, egli giunge al servizio a tavola, come Luca mostra nell’Ultima Cena (Lc.22,17-20) e Giovanni alla lavanda dei piedi (Gv.13,3-9). Perciò a Chiesa dei primi tempi ha cominciato a leggere il magistero del Signore dal Vangelo della passione, ed ogni cristiano maturo nel cammino di fede sa, per contemplazione e per esperienza, che il Crocefisso è il Vangelo spiegato.
“In riscatto per molti” non è il prezzo di un contratto, come se Dio esigesse una soddisfazione che obbligherebbe un innocente a morire, ma una suprema dedizione personale, assunta liberamente da Gesù, che permette alla infinita misericordia di rivelarsi quale è ed apre ad ogni uomo la speranza sicura di sentirsi accolto. La morte in croce è l’atto più grande dell’amore, del servizio di Gesù a favore dell’umanità, è l’apice della rivelazione di Dio. È ai piedi della croce che il centurione romano può dire: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio” (Mc.16,39).
I cristiani imparano che Gesù dona loro la sua strada. Li espropria dell’amore del potere. Li riveste del potere dell’amore. Li invita a considerare la spesa della propria esistenza dietro a Lui “in riscatto per molti”, non come una sconfitta, un minor essere, un vittimismo, ma come un più essere che manifesta la vittoria dell’Amore, un divenire compagni, sposi di Cristo nel dare la vita per l’umanità.
In sintesi, Dio non ha troni, ma è Colui che si lega un asciugatoio ai fianchi per lavare i piedi di quelli che vivono con Lui; non vuole essere cercato in alto, nei cieli, ma tra la gente bisognosa di attenzione. Non sopra, ma in basso, nella piccolezza delle creature, perché è il Dio vicino. E perché essere sopra l’altro è il segno della massima distanza dall’altro.
Marco ci invita a riflettere su questa realtà sconvolgente: se il nome di Dio è “servitore, allora il nome della storia e della Chiesa è “servizio”. Sono necessari il silenzio del cuore e la docilità della mente per cogliere il senso di queste parole che suscitano sgomento. Per capire che cosa significa l’espressione “ultimo posto” bisogna contemplare il calvario, la croce, là dove Gesù si dona al Padre come bene disponibile e inesauribile per gli uomini di ogni tempo. Non si tratta di una contemplazione astratta, né di sola devozione ricca di riconoscenza e sentimento, ma di una fonte di energia a cui i discepoli potranno attingere in ogni tempo e di un contatto vivo con Lui che, nell’Eucarestia, resta come il bene disponibile perché i seguaci possano imparare da Lui a vivere servendo, scoprendo sempre più profondamente e concretamente il legame tra essere discepolo nella fede ed essere dono per la vita dell’umanità.
Marco propone l’insegnamento del Signore subito dopo il terzo annuncio della passione. Gesù “sale” a Gerusalemme, “camminando davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti”. Pedagogo paziente, prende “in disparte” i discepoli e fa di nuovo una descrizione cruda “di quello che sta per accadergli” (Mc.10,32-34). E, subito, il racconto continua con la richiesta di Giacomo e Giovanni che, come spesso accade anche a noi, continuano a fraintendere l’insegnamento sul regno di Dio, ritenendolo occasione di grandezza e prestigio, realtà da possedere ed utilizzare per l’affermazione di sé.
Due pensieri, perciò, che si scontrano frontalmente. Gesù li pone davanti a quello che lo aspetta a Gerusalemme, li aiuta pazientemente ad uscire dal rischio di abusare della loro condizione di discepoli privilegiati, per ritenersi migliori degli altri e più meritevoli di quanti non hanno ricevuto il dono della stessa chiamata a vivere con Lui. Ma nel cuore di tutti è il desiderio del privilegio: Matteo rende più umanamente drammatico il racconto, perché è la mamma dei due discepoli che lo chiede, supplicando. La rabbia degli altri tradisce i medesimi pensieri in tutti. E Gesù dona con pazienza l’insegnamento sul potere. Questo non potrà essere vissuto alla maniera dei potenti, che calpestano la gente loro sottomessa, nella presunzione di superiorità. A questo modo di pensare il potere, che è abuso contro i figli di Dio, Gesù contrappone un altro stile di comando, che è quello del servizio. Usa due termini: “servitore” e “schiavo”. Il primo è colui che serve a tavola, che si accorge delle necessità dei commensali e interviene a provvedere: è colui che serve per la vita, che la sostiene e la rianima quando c’è bisogno e debolezza; il secondo è colui che sa di non avere diritti, ma solo obblighi nei confronti del suo signore. Perciò il discepolo di Gesù dovrà sentirsi obbligato a compiere con umiltà quello che gli viene richiesto nella vita e a viverlo nel servizio della comunità e del bene comune.
“Tra voi, però, non è così”. Nella comunità che Gesù sta preparando devono valere forme nell’esercizio del potere diverse da quelle che valgono nel resto del mondo. Comandare significa servire la vita, suscitare la vita, preoccuparsi per la vita seguendo Gesù. Perciò i discepoli sono invitati ad imparare bene le motivazioni della vita di Lui: “Il Figlio dell’uomo … non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”. Operare in nome di Gesù è servire l’umanità.
Gesù chiede di contemplare bene quello che chiama “il dono di sé”: “dare la propria vita” (il testo greco usa il termine “psiche”): è l’offerta della sua intima profondità, il suo essere più profondo di Figlio di Dio: questo dono radicale è “riscatto” – come quando si libera qualcuno, pagando di persona: Perciò è liberazione. È una forza di amore talmente radicale da sostituire la mancanza di forza di chi è nella schiavitù e nella incapacità di liberazione. Questa è l’esperienza liberante della fede.
È necessario riflettere su questo per diventare capaci di incontrare l’umanità del nostro tempo, bisognosa di liberazione, ma incapace di raggiungerla. L’amore di Gesù viene ad abitare in me, rendendomi libero di amare, senza attendere il ritorno dell’amore che ho dato. Forse i cristiani sono chiamati a questa sostituzione, imparando l’amore ai piedi della croce, come hanno fatto da consacrati santa Teresa di Lisieux, nel monastero di clausura, e Massimiliano Kolbe ad Auschwitz, come ha fatto Salvo d’Acquisto, da semplice carabiniere.
Quando riesco a comprendere, ad essere certo che c’è uno che si fa garante per me, che mi ama senza condizioni, che si dona per me, allora io sono libero dalla schiavitù di me stesso e sicuro che nulla mi potrà separare da chi mi ama, come scrive s. Paolo ai Romani (Rom.8,35). Sono libero di pensare al “noi” della fraternità, fino a raggiungere – seguendo il Signore – la libertà altissima di vivere in prima persona l’amore sostitutivo, perché i fratelli possano essere liberi. Oggi sono tanti ad avere bisogno di amore, anche di amore sostitutivo.
Capire che cosa intende Gesù quando, alla richiesta di posti privilegiati fatta da Giacomo e Giovanni, risponde con l’invito perentorio a distogliere lo sguardo dai modelli umani del prestigio e dei privilegi, di non immaginare il Regno di Dio come un palazzo e una corte:
“Tra voi non è così”
Giovanni e Giacomo erano tra i più intimi del Signore, ma questo non significa che fossero in grado comprenderlo pienamente. Gli evangelisti lo sanno e riferiscono le parole di Gesù immediatamente legate al terzo annuncio della passione (Mt.20; Lc.22; Gv.13); Marco le riferisce al termine del viaggio verso Gerusalemme, come un testamento che dovrà essere considerato la carta costituzionale della comunità cristiana.
Per noi è il dono della liturgia di questa domenica. Capire per vivere nei giorni che ci vengono dati, è una grazia da domandare allo Spirito con preghiera umile e paziente, perché si tratta di un cambiamento di mentalità, di una trasformazione antropologica, di una visone della vita che può apparire improponibile a chi sente in sé l’inclinazione, comune ad ogni uomo, per l’ambizione ed il potere. La conversione del cuore e della mente è un cambiamento di rotta e di comportamenti senza di cui non nasce la Chiesa.
Gesù dona l’ultimo insegnamento delle scuola di formazione ai Dodici e si propone come modello. Lo fa con uno stile di pazienza e dolcezza, chiamandoli ancora a sé: evita ogni rimprovero, educa: “Tra voi non è così”. Offre se stesso come concreto apripista della via nuova che inaugura: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la vita”. Dice ai Dodici e a tutti noi che non è l’affermazione di se stessi, ma l’abnegazione a favore degli altri che fa la società rinnovata dal Vangelo.
Capire significa guardare l’ultimo posto nello scenario della croce, là dove si rivela il servizio universale del Signore. La croce non può essere identificata solo come rifugio e devozione, come didascalia di una dottrina, ma come grazia, fonte, energia da attingere per vivere con Cristo l’ultimo posto, che altrimenti non sarebbe proponibile all’uomo. L’uomo infatti può percorrere la strada della perdita delle proprie ambizioni se in lui opera Cristo stesso. È per questo che Gesù ha fatto dono alla Chiesa della Eucarestia, che è la memoria del suo servizio fino alla morte e la sua attualizzazione nel tempo e nei cuori. Celebrare l’Eucarestia vuol dire, per la Chiesa, rendere presente l’amore servizievole di Gesù per essere resi capaci di vivere servendo. C’è un rapporto indissolubile tra Eucarestia e carità, tra Gesù che muore in croce e Gesù che lava i piedi, come uno schiavo e non come un padrone di casa. Una Chiesa che si riducesse al solo rito, sia pure solenne e devoto, non celebrerebbe “realmente” l’Eucarestia, perché il fine di essa è l’amore che serve.
Gesù mostra prima due esempi negativi per donare poi la sua visione delle cose. Dice che i sovrani calpestano i popoli, valutano la loro grandezza dal mettere in ginocchio gli altri. E parla dei potenti che usano il potere facendo violenza, fisica o morale. Dice che questi comportamenti sono un vero e proprio fraintendimento, che lascia chi lo vive nelle proprie ferite e nella sofferenza dell’ingiustizia i più deboli.
Chi guida – è il pensiero di Gesù – deve essere al servizio della vita, aiutare chi è debole, rianimare chi non ha più forze. Chi ha compiti da svolgere nella comunità di fede e nella società civile, consapevole del proprio legame con il Maestro Gesù, non si ritiene superiore o signore degli altri. Ma guarda a Lui, modello e guida, che mostra la via di Dio nella storia dell’umanità, la via che è pagare di persona, per amore del bene comune.
Gesù dona così il suo insegnamento sulla propria morte, tutta positiva, perché amore per l’umanità, sostitutiva della sua incapacità a vivere come dono. La chiave per la vittoria sulla negatività è l’amore che non si arrende, che non desiste e così genera la speranza. Sembra dire: se uno si fa garante per un altro con la propria esistenza, significa che lo ama e giunge a dare la sua vita per lui; se il suo amore si dice pienamente, come in un culmine, nella morte; se spinge a gridare di riconoscenza: “Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal.2,20), allora nessuna morte può separare chi ama da chi è amato (cfr.Rom.8,35). Ed è il trionfo della vita. Il servizio d’amore è perciò la proposta che Gesù fa agli uomini!
La sua morte non è il fallimento della sua comunione con l’uomo, ma è il lievito che genera una comunione che non può essere più distrutta dal male, Per il discepolo è la constatazione che il servizio dei fratelli nella comunità di fede e nella società civile è la sorgente di rapporti veri, il superamento della sopraffazione e della violenza, la fonte della pace.
Giornata missionaria, giornata della vocazione al dono di sé.