XXXIII DOMENICA T.O. – Anno B
(Dn 12,1-3; Sal.15; Eb 10,11-14.18; Mc 13,24-32)
Con la lettura del tredicesimo capitolo ci congediamo quest’anno dal Vangelo di Marco. Per molte domeniche abbiamo seguito Gesù nel suo cammino dal nord della Galilea, attraverso la Samaria e la Giudea, fino a Gerusalemme, dove la sua esistenza terrena si sarebbe compiuta sulla croce. Abbiamo ascoltato i suoi insegnamenti, lungo questa strada: con i discepoli abbiamo stentato a capirlo, ad entrare nel suo disegno di amore che accettava la passione come unica via di salvezza per l’umanità.
Il capitolo 13 è tutto dedicato alla rivelazione del compimento della storia, di ogni realtà umana, non solo della vita di Gesù. Il testo appare duro, di difficile interpretazione, perché Gesù usa il linguaggio apocalittico, quello che, nel suo tempo, era usato per rivelare il senso ultimo di tutte le cose. Ma il suo discorso è teso a farci comprendere l’intima connessione fra la fine della storia e il nuovo inizio nel Signore, che raduna a sé tutti gli eletti. “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo”. Il tempo finisce e ha inizio l’incontro eterno fra la caducità della creature e il dono di grazia di una vita senza fine.
Lo spunto per la riflessione di Gesù è la imminente caduta di quel Tempio, di cui gli Ebrei andavano tanto fieri. Non passerà una generazione ed esso sarà distrutto. Mentre Gesù parlava era circa l’anno 35, nel 70 Tito conquistò Gerusalemme e distrusse il Tempio. Gesù, però, non si ferma a quest’annuncio, ma parla per ciascuno di noi, per tutta la storia, per quanti vogliono trovare il senso del proprio tempo sulla terra. Lo stordimento causato dal rumore dei mezzi di comunicazione di massa, l’ossessione del consumismo ci strappano dall’attenzione verso questa problematica. Non lasciamoci sottrarre all’incontro con il Signore, alla ricerca del senso del nostro vivere: saremmo privati della cosa più preziosa, della fede, della speranza in Dio.
Gesù non si rivolge ai soli cristiani, essi non hanno l’esclusiva del suo annuncio, della speranza, che egli ci comunica: “Lo dico a tutti… Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. La sua Parola è più importante della conoscenza della data e del modo del compimento della nostra fine. Ciò che conta principalmente è l’attenzione ai segni, che indicano in modo diverso a ciascuno di noi, dove dobbiamo guardare per incontrare il Signore che viene: le parole di Gesù sono il criterio che dobbiamo seguire per pensare correttamente, per comportarci secondo la sua volontà, nella diversità dei momenti, delle situazioni. In una di quelle interviste televisive, a volte così banali – che cercano di violare la riservatezza dei sentimenti delle persone colpite da un grande dolore – abbiamo appreso come un cristiano può vivere la propria tragedia. Una giovane donna, sposa di un carabiniere ucciso in Iraq, ha risposto a chi la intervistava: “La mia verità, la mia speranza sono nel Vangelo: perdono, amore per i nemici”. Ella ci ha insegnato come vivere l’angoscia del presente nella luce di Cristo, che illumina l’oggi, proiettandolo sul futuro della sua venuta.
Marco ci invita alla vigilanza: i discepoli non devono lasciarsi schiacciare dalla sofferenza personale e collettiva, ma desiderare solo l’incontro con il Signore nella quotidianità, senza arzigogolare sulla data del suo compimento definitivo. A ciascuno è chiesto di vivere nell’oggi la propria responsabilità, quella di cui un giorno il Signore ci chiederà conto, secondo la parabola (che quest’anno non abbiamo trovato nella liturgia) del portiere che deve vigilare sull’andamento della casa, finché il padrone non torna: egli deve essere pronto in qualsiasi momento, sia esso lieto o doloroso. Anche nell’orto del Getsèmani Gesù chiederà ai discepoli di vigilare, di vegliare pregando con lui. Vivere così, alla presenza del Signore, è una beatitudine: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà al suo lavoro!”.
La liturgia di oggi ci invita, perciò, a vivere nella concretezza dell’oggi la verità escatologica, l’insegnamento della Scrittura sul fine ultimo di tutte le cose. Il Regno, la signoria di Dio sulla storia, si è realizzato in Gesù e noi dobbiamo accoglierlo nella nostra vita, senza fare calcoli sulla data della nostra fine, ma convertendoci ogni giorno al Vangelo. In Gesù l’escatologia non è scienza del futuro, il Signore non ci vuole rivelare la data della fine, perché il problema non è lì, ma solo nell’oggi. È umiliante abbassarsi a consultazioni più o meno magiche per conoscere il futuro! Il discorso di Gesù ci rivela la presenza costante di Dio con noi: il credente è custode della verità dell’intervento del Signore nella storia, che si attua attraverso ogni nostro saluto, ogni gesto apparentemente insignificante, ma carico di amore. Gesù ci educa così alla speranza: al di là di tutte le ingiustizie, di tutte le tragedie c’è sempre Dio che viene, ed egli è il Dio dell’amore. Oggi in ciascuno di noi sembra vincere il dolore, lo smarrimento per il dilagare del male: ma il profeta Daniele, che abbiamo ascoltato nella prima lettura, ci invita ad essere persone “che avranno indotto molti alla giustizia”. Vinciamo questo smarrimento cogliendo la preziosità dei germogli di giustizia e di pace che pur abitano il nostro mondo e testimoniano la presenza dello Spirito di Dio: egli ci dona la sua vita, perché noi non cadiamo nella disperazione. Allontaniamo da noi la paura del giudizio e abituiamo i nostri occhi a guardare con dolcezza il Signore che viene.
Lui è l’unica speranza di tutta l’umanità!
“Allora accadde che uno dei soldati, senza aspettare un ordine e per nulla intimorito da una tale impresa, mosso da impulso sovrumano prese un tizzone dal fuoco ardente; si fece sollevare da un altro soldato e scagliò il fuoco dentro la finestra dorata … Quando la fiamma si innalzò, i giudei levarono un grido pari a questa tremenda sciagura. Accorsero per bloccare il fuoco e non ebbero riguardo della loro stesa vita né risparmiarono le loro forze, cionondimeno veniva distrutto proprio quello a cui avevano prestata tutta la loro vigilanza”.
Così scrive Giuseppe Flavio, storico ebreo di cittadinanza romana, nella sua storia sulla guerra giudaica (7,1-4). Era il 6 agosto dell’anno 70. Dopo l’incendio del tempio, Vespasiano e Tito vollero la distruzione della città, che fu definitivamente attuata da Adriano nel 135, che volle la nuova con il nome di Aelia capitolina ed un tempio politeista.
La speranza rimaneva nel cuore dei credenti come un gemito: in un testo contemporaneo, l’Apocalisse di Baruch, leggiamo: “Fino a quando durerà tutto questo?”.
Nel 1930, terminando la sua storia di Israele, l’abate Giuseppe Ricciotti scriverà: “da quel giorno i giudei hanno avuto per città il mondo intero, e per tempio il proprio cuore”.
Oggi leggiamo un brano del capitolo 13 del Vangelo di Marco, con le parole del Signore sul dramma di Gerusalemme e sulla prospettiva del giudizio finale di Dio sulla storia. Leggiamolo con fiducia e con impegno, sapendo che il Vangelo vuole aiutare la comunità a vivere la propria presenza nel mondo, qualsiasi siano le circostanze che la storia umana produce. Raccontandoci lo sgomento di quei giorni storici, la Chiesa dei primi tempi ci trasmette il suo impegno a seguire Gesù, vivendone il messaggio luogo per luogo, tempo per tempo. Il Vangelo è contemporaneo di ogni età, perciò questo leggere di oggi non può relegare la pagina al passato, ma deve indurre a cercare tra le pieghe del genere letterario apocalittico – e perciò dai colori drammatici ed enfatizzanti – il nucleo della Parola di Dio che occorre attuare nel nostro tempo e nelle nostre situazioni.
È importante capire che, qualsiasi siano le circostanze, il discorso di Gesù non è un’istruzione su quello che sta per accadere o sul quando accadrà. Egli è uomo in tutto e non può conoscere i particolari degli avvenimenti futuri. L’insegnamento del Signore mira piuttosto a predisporre chi legge all’avvenire, orientandolo al comportamento attento al presente per essere pronti al futuro. È di grande attualità. Perché sempre più grande è l’angoscia che interroga l’avvenire su temi quali lo sviluppo, la pace, la dignità dell’uomo e ci chiediamo che cosa accadrà ai nostri figli, alla nostra città… Anche oggi torniamo a ripetere: “Fino a quando durerà tutto questo?”.
Nella Chiesa emerge il grande compito di tener viva la speranza cristiana, che non punta alla rivelazione apocalittica di eventi futuri, ma dona luce e forza al presente: già dai primi tempi la Chiesa ha conosciuto tendenze “millenaristiche” che negli avvenimenti vedevano “l’inizio della fine” e turbavano la gente con paure apocalittiche, ma non le ha mai fatte proprie.
Marco si oppone a queste seduzioni, ma invita a fare discernimento su quello che vale in quanto accade, in spirito di fede, e ci chiama all’impegno nella storia. Così l’annuncio della caduta di Gerusalemme non resta isolato, ma entra nella storia di ciascuno, spingendo a riflettere non solo sul fatto, ma sulle sue cause e conseguenze. Invito perciò ad ascoltare la voce di Dio negli avvenimenti, senza inutili “archeologie”, ma anche senza pretendere di avere soluzioni che potrebbero non corrispondere al compimento del suo piano.
Cerchiamo di aprire il cuore al messaggio del Vangelo: Gerusalemme aveva la vocazione altissima di “sposa di Jahvè”, “madre di tutti i popoli”, “crocevia delle genti”, ma ha il suo dramma nella chiusura del cuore. Il Vangelo di Luca ci mostra Gesù che piange sulla città: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace… Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici… abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno di te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Lc.19,42-44).
C’è dunque legame tra chiusura a Dio e rovina della città.
Come non vedere in questa luce di amore e di dramma il nostro presente: quello che accade nelle nostre città, nelle scuole, nei luoghi pubblici, nelle famiglie… Se la città è pensata come “dimora di Dio con gli uomini”(Ap.21,2-3), la convivenza umana dove si moltiplicano le solitudini e la negazione dell’amore diventa “l’anticittà”, quella Babele su cui non può realizzarsi l’invocazione del salmista:
“Fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi” (Sal.80,4)
La città senza volto di Dio è perennemente buia.
La logica che angoscia perché sembra vincente, non solo quella della violenza e del sangue, ma quella a noi più vicina dell’egoismo appartato e del silenzio rassegnato, della complicità con i palazzi della politica e del danaro, fa spazio a quella di Lamech che la Bibbia registra come una maledizione:
“Ho ucciso un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette!” (Gen.4,23-24)
È la logica dell’ “anticittà”, che conduce alla convinzione della totale impossibilità di superamento della situazione, la logica della “catastrofe”, che non è la logica cristiana.
Marco ci dice, in questa domenica di commiato da lui, “allora vedremo il Figlio dell’uomo” “sappiate che Egli è vicino, alla porta”. Ci tira fuori dalle paure, ci spinge ad aprirci al superamento della tentazione di salvarci da soli, restando chiusi in se stessi, nel proprio privato. E la liturgia ci ripete nella prima lettura: “coloro che avranno indotto molti alla giustizia, risplenderanno come le stelle per sempre”.
Come un atto di amore per Napoli, facciamo nostre le parole di Agostino, permeato dall’angoscia dopo la presa di Roma da parte dei barbari:
“Se permane la città che ci ha generati fisicamente, ringraziamone Dio.
Volesse il cielo che essa venisse generata spiritualmente e con noi passasse all’eternità” (discorso 105,7.9).
Quando Marco scriveva la stesura definitiva del suo vangelo il tempio era già stato incendiato e distrutto e i Romani erano sempre più convinti che nulla poteva resistere alla forza dell’Impero. Marco, invece, annuncia che tutto è intimamente precario e destinato a scomparire. La caduta di Gerusalemme e la fine del tempio sono, nel suo vangelo, il simbolo del dissolversi di ogni realtà davanti al definitivo che resterà per sempre.
“Allora vedranno”: dopo il tempo della Chiesa contraddetta e perdente, il Signore sarà riconosciuto dal singolo uomo e dalla comunità, come in una presa di coscienza universale e condivisa del mistero della storia. L’uomo, chiamato a vivere a sua immagine, si troverà come ad un inizio, nello splendore della verità. Il venire di Cristo sarà perciò giudizio, rivelazione della relazione oggettiva tra scelte e gesti dell’uomo e vicenda di Gesù, al di là della stessa coscienza soggettiva. Vi sarà, nella verità piena dell’incontro, la gioia di scoprire realizzata la propria vita umana per la relazione con l’oggettività di Cristo, persino al di là della consapevolezza soggettiva e della convinzione personale di fede religiosa, come afferma con chiarezza il capitolo 25 del vangelo di Matteo.
“Radunerà i suoi eletti”: sarà il raduno definitivo del popolo di Dio, di cui il Signore stesso manifesterà la consistenza e la dimensione “dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo”. Nessun “eletto”, amato perché vissuto nella conformità alla parola di Cristo, verrà dimenticato. Fin quando siamo nel tempo, nessuno sa bene chi sia per davvero membro del popolo di Dio, né dove né quando la comunità possa essere esattamente identificata. Ma quel giorno lo svelerà e la certezza che ogni uomo è nella memoria del Signore, anche quando fosse restato sconosciuto alla Chiesa, è fonte di speranza e di attesa fiduciosa.
“Sappiate che egli è vicino, è alle porte”. Nella consapevolezza, a volte angosciante, della provvisorietà di ogni cosa, l’esistenza nella fede è rassicurata dalla presenza del Signore Risorto: egli è così “vicino” da avvertirlo come “imminente”, come “il veniente”. “Sì, vengo presto” (Ap.21,20), egli annunzia nel libro dell’Apocalisse, ed è così testimone di verità da permettere di restare fedeli, anche nell’apparente inattualità delle sue parole, nel rifiuto del mondo, che propone diverse attualità.
“Le mie parole non passeranno”. Ha scritto Albert Schweitzer “Il tempo che non si può calcolare e che proprio per questo riguarda direttamente ad ogni istante l’uomo, chiama ad avere verso la vita un atteggiamento in cui si sta sempre responsabilmente di fronte al Signore che viene, e non si permette che alcunché ci distolga da una costante disponibilità per lui”.
Il fondamento della stabilità cristiana è nella certezza del Signore: “Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, il Vivente, Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Ap.1,17-18).
Questo del capitolo 13 è l’insegnamento più lungo di Gesù nel vangelo di Marco, davanti ai primi quattro chiamati dei Dodici; ma egli ha in cuore tutti gli uomini, perciò Marco dice: “Chi legge, capisca” (Mc.13,14) e “Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!” (Mc.13,37). È la voce del Signore, che si leva con autorevolezza sulla pluralità di voci che si propongono come portatrici di salvezze diverse e di soluzioni miracolistiche di tutti i problemi: “Molti verranno nel mio nome dicendo ‘sono io’ e trarranno molti in inganno” (Mc.13,6).
Prima di sottomettersi alla passione, Gesù ci dice che chi annuncia una salvezza senza croce, non è il Messia. Perciò affida a Marco il compito di dire che quello che accade a Lui, accadrà anche ai discepoli. È la “grande tribolazione”, descritta con termini tratti dal genere letterario dell’apocalissi: “il sole si oscurerà … le stelle cadranno … “.
A volte, nella vita, proviamo la sensazione degli astri che cadono: la fine di quello che ci aveva dato sicurezza e gioia, la caduta delle speranze, il terrore che il sole tramontato non possa più riemergere dall’oscurità della notte, le tante cose che ci privano della capacità di sorridere.
Gesù riunirà e porterà alla pienezza quanto in ognuno di noi è disperso e fratturato, toglierà le lacerazioni dell’anima il turbamento e le oscurità che ci hanno abitato. Toglierà ogni situazione che opprime l’uomo fino alla morte della speranza.
Perciò Marco pone questo insegnamento prima del racconto della passione. Sulla croce, le tenebre oscurano il sole. E proprio in quella oscurità Gesù è il sole che illumina ogni oscurità. La croce vuol dire che non c’è alcuna tenebra, nessun fallimento, nessun crollo, nessuna pena dell’anima che non possa essere redenta dalla venuta del Crocifisso Risorto. Gesù ci dona l’immagine del portiere, cui è chiesto di vegliare (Mc.13,34).
Chiediamo un vita resa capace di lasciare svegli e l’amore che sa attendere.
Amen!
Nel capitolo 13 Marco pone l’insegnamento del Signore sulla distruzione del tempio e di Gerusalemme. Gesù parla a quattro dei primi discepoli, ma quello che dice è rivolto a tutti gli uomini, a cominciare da chi legge, perché “capisca” (v.14) e viene incaricato di “dirlo a tutti” (v.37). Il brano della liturgia è breve ed invita a riflettere su tutto il capitolo.
- Il contesto che precede il compimento della profezia è caratterizzato dai “falsi profeti” che “verranno nel mio nome dicendo: sono io” (v.6). In ogni epoca della storia vi sono uomini che affermano di essere messaggeri di Dio, di doverlo annunciare, di essere portatori di salvezza; anche il nostro tempo ne conosce, a volte con confusione di chi compie il cammino faticoso della ricerca. Gesù fa questo discorso nell’approssimarsi della passione per lasciare un criterio certo di discernimento. Quando qualcuno promette la soluzione per tutti i problemi, quando proclama la felice e facile riuscita, questo non corrisponde alla verità di Dio. Un discepolo di Gesù non può mettere da parte la croce. Se qualcuno lo fa è un falso profeta.
- Guerre e catastrofi naturali, come avvengono in ogni epoca, sono segno delle situazioni difficili in cui i discepoli si potranno trovare, soprattutto quando saranno chiamati a condividere la passione di Gesù. E lui assicura la presenza dello Spirito che, da vicino e momento per momento, suggerirà il modo per resistere: “Chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (v.13). E afferma che nessuno sarà provato più di quanto non gli sia reso possibile. Le immagini crude della tribolazione a Gerusalemme per le brutture della guerra, possono essere riferite anche alle vicende di ciascuno, fisiche e spirituali. A volte “l’abominio della devastazione” irrompe nei corpi, nei cuori, nelle famiglie, nella Chiesa, domanda la fatica della lotta per non soccombere, il tormento per l’inutilità degli sforzi per vincerlo. Gesù promette di abbreviare quei momenti, facendoli leggere come segni distintivi della sua venuta. Così libera l’umanità dalla disperazione che si impossessa dei cuori quando “il sole si oscura” nell’intimo di sé, quando le stelle cadono, quando non si può più sperare nell’alba. Il Figlio dell’uomo redime quei segni e li trasforma in esperienza della sua presenza. Pensiamo alle tante persone che hanno l’impressione che tutto sia crollato, vanificato quello che avevano sognato e per cui avevano lavorato. Tante persone senza speranza. In queste notti buie, dice il vangelo di Marco prima di raccontare la passione e l’abbandono di Gesù, il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi con grande potenza e gloria… e radunerà i suoi eletti” (vv. 26-27).
Marco ha fatto la scelta i donarci la luce del Risorto prima del racconto della passione, perché sulla croce il male e l’oscurità sembrano vincenti. Ci dice che Gesù porta a Dio, alla ricomposizione, tutto quello che in noi è disperso, è frammentato, è lacerato. Non c’è nulla di crollato o di sciupato che non sia raggiungibile dal suo amore crocefisso per l’umanità che siamo noi, nelle nostre solitudini di ogni giorno. - Prepararsi. Il Figlio dell’uomo sta sempre davanti alla porta per entrare nell’interiorità e restarvi (Ap.3,20). Al discepolo viene chiesto di vegliare, “l’atteggiamento in cui l’uomo attende sempre responsabilmente il Signore che viene e da nulla si lascia distogliere nella costante disponibilità a Lui” (Schweizer).
Gesù consegna a tutti noi l’immagine, cara ai primi cristiani, del portiere (v.34), perché viviamo concretamente l’impegno di vigilare chiesto domandato a lui. Egli può giungere in ogni momento e bussare alla porta di ciascuno. Viene, nella calma del cuore, a darci suggerimenti per il nostro cammino, viene nell’ora della morte per il “per sempre” del suo amore da vicino. I discepoli a cui ha confidato queste cose non sono tanto bravi a vegliare, non lo saranno durante la preghiera drammatica al Getsemani. E questo è un ammonimento. Come discepoli di Gesù dobbiamo imparare a vegliare, ad evitare il pericolo di frastornamenti, del rumore delle voci gridate, di quella sonnolenza che impedisce di guardare le cose come sono, senza le illusioni che sorgono dentro i nostri sogni, o perché indotte dalla pubblicità. Essere cristiani significa essere vigili, essere in attesa. Solo così si può comprendere la passione che mostra Gesù che viene, Lui, il Figlio dell’uomo, in ogni aspetto della miseria umana, per superarla con noi ed introdurci nella casa del Padre.
Così come ha testimoniato Agostino:
“Ecco, la speranza ci allatta, ci nutre, ci sostiene, e in questa vita ci affatica, ci consola.
È proprio in questa speranza che cantiamo l’alleluia.
Ecco quanta gioia ha la speranza. La realtà stessa cosa sarà?
La speranza canta l’alleluia, l’amore lo canta ora, l’amore lo canterà anche allora, ma ora lo canta l’amore che desidera, là lo canterà l’amore che gode.
Se amate così la rugiada, quanto amerete la sorgente stessa?”
(Discorso 255,5,5)
E, quasi traendone conclusione:
“Così, in questo tempo, in questi giorni che sono cattivi, non solo dal tempo in cui Cristo era presente corporalmente con i suoi discepoli, ma dal tempo di Abele, il primo giusto ucciso dal fratello cattivo, e fino alla fine di questo mondo, la Chiesa cammina pellegrina tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”
(De civitate Dei, XVIII, 51, riportata nella Lumen gentium,8)