XIV DOMENICA T.O. – Anno B
(Ez 2,2-5; Sal.122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6)
A Nazaret, nel lungo periodo di circa trent’anni, nulla di straordinario era stato notato dalla gente nel “figlio di Maria”. Lì il ragazzo Gesù era vissuto e cresciuto con e come gli altri ragazzi, aveva frequentato la scuola e la sinagoga, aveva imparato il mestiere di “carpentiere”, condividendolo con Giuseppe, diventando una di quelle persone che si prestano ai lavori comuni di manutenzione, richiesti dalla vita ordinaria, come non è raro trovare ancora nei nostri paesi. Fino a quando, a circa trent’anni, non aveva iniziato a vivere autonomamente la sua vocazione e il suo compito di maestro del Vangelo dopo l’incontro con Giovanni Battista, facendo di Cafarnao il suo punto di riferimento principale. Proprio da Cafarnao torna “nella sua patria” – dice Marco nel brano di oggi – accompagnato dalla fama di essere un maestro sapiente e in grado di operare miracoli. (Luca riferisce che va alla sinagoga, come ebreo adulto si fa dare il rotolo della legge e lo commenta). La gente non si entusiasma; anzi si chiude nel sospetto, come per dire di non poter credere che Dio, il Signore degli eserciti, l’Altissimo, Colui che è così grande e diverso da non poter nominare, accessibile solo attraverso i sacerdoti addetti al culto, possa rivelarsi ed operare attraverso persone di cui si conosce tutta la vicenda umana, con i suoi limiti e condizionamenti, che obbligano ad una vita semplice ed umile, priva di aspetti straordinari. Marco mette sull’avviso la coscienza di fede dei suoi lettori. Li ammonisce perché si guardino dal pericolo della diffidenza, che può impedire a Dio di manifestarsi. Perciò vuole che ricordino il dolore-stupore di Gesù che sa quanto il cuore dell’uomo, in cui abita il pregiudizio non si apre alla fede. È quella malattia dello spirito, che i Padri della Chiesa chiamavano “sclerocardia”, il rifiuto di credere in un Dio che si abbassa al livello umano.
A volte, anche tra quanti ci diciamo credenti nel Signore e discepoli decisi a vivere i suoi insegnamenti, può accadere di provare difficoltà nel sentirlo tanto libero nei confronti di situazioni che noi, quando ci coinvolgono, viviamo con disagio: Gesù prende per mano una ragazza morta, si lascia accarezzare i piedi dalla peccatrice conosciuta da una popolazione intera, va a mangiare a casa di uno che si arricchisce con i soldi … Noi ci aspetteremmo la carezza di Dio dalle mani delicate della persona spirituale, non da quelle dure e callose del carpentiere. E, quando lo vediamo addormentarsi per la stanchezza, aver paura della sofferenza o impazientirsi con i discepoli che tardano a capire o con i mercanti che rendono il tempio della preghiera luogo di guadagno, questo ci sconcerta, ci sgomenta uno stile che mette al servizio del bene la debolezza e la passionalità.
Così, quando Lui ci ricorda le regole del suo insegnamento: amare anche i nemici, imparare la gratuità nei rapporti, non avere paura dei rifiuti, quelle regole ci appaiono più follia che sapienza. Così la quotidianità ci può apparire meschina e priva di dignità per poter essere il luogo dove abita, nel momento che ci è dato, il divino. È la sconfitta del Dio abbassato dall’incarnazione, che si insinua in ogni piega e istante della vita, la vittoria del Dio inerte dei filosofi. Lo stupore accorato di Gesù, che si vede rifiutato a motivo della propria umanità da parte della gente che lo conosce da “piccolo” e sa ogni cosa della sua famiglia, è stupore perché è proprio la gente di fede che si trova a rifiutare l’iniziativa di Dio che si fa povero per raggiungere l’uomo in ogni sua povertà. Non dobbiamo sorprenderci se anche la Chiesa può conoscere il rifiuto dentro di sé, può avere atteggiamenti trionfalistici, che non riconoscono la rivelazione del Dio che si umilia, perché non è scontato il Vangelo, ma bisogna sempre convertirsi, sempre, faticosamente, tutti. Ed imparare, pian piano, che le umiliazioni, che a volte prostrano chi vuole seguire Gesù e il Vangelo, non sono fallimenti, ma una via di fecondità e di testimonianza, come, nella liturgia di questa domenica dice per esperienza Paolo ai Corinzi: la grazia del Signore “si manifesta pienamente nella debolezza”. Al di là di sentirsi umiliato per la propria debolezza, Paolo avverte in essa la chiamata ad assimilarsi al Signore, alla condivisione con Lui, nella morte e nella resurrezione, già nel presente.
Così la nostra personale condizione di povertà e piccolezza può diventare Vangelo di Dio per la persona che abbiamo di fronte al lavoro, oppressa da preoccupazioni e dolori nascosti, o per quella che domanda un momento di ascolto sulla spiaggia, per confidare un pensiero che scopriamo come Vangelo per noi. Non è il successo che conta, ma l’accoglienza di chi è di fronte a noi. Quanto è importante poter dire in semplicità e libertà “anch’io”, “anche a me è accaduto”. Quanto è divino poter affermare: “Siamo tutti nella stessa barca”, non con l’espressione scontata della rassegnazione, ma con la gioia di poter testimoniare che su quella barca è salito Gesù, l’uomo con noi uomini. Nel Vangelo che abbiamo ascoltato domenica scorsa, Marco ci ha detto che, con il comando del Signore al vento, “si fece una grande pace”.
L’annuncio e la testimonianza della fede possono incontrare l’insuccesso e il rifiuto. Il Signore stesso sperimenta e sceglie, per viverli, la via della debolezza che sorprende e genera delusione, addirittura scandalo, in chi pure lo ascolta con simpatia. Marco, e con lui Matteo e Luca, raccontano l’episodio di Nazaret perché è significativo della vita e dello stile di Gesù e perché i credenti lo ricordino sempre.
Quali sono le ragioni di questo insuccesso? L’appartenenza ad una famiglia di condizioni modeste, il non aver frequentato le grandi scuole dei maestri ebraici, l’apprendistato del mestiere nella bottega di Giuseppe, tutto induceva alla diffidenza. Come Dio, il grande e l’onnipotente, può manifestarsi in un’esistenza simile, così lontana da come la tradizione del popolo lo attendeva? La gente di Nazaret si trovò prigioniera della convinzione che Dio non potesse abitare in una vita così ordinaria, quella di un giovane carpentiere in un villaggio sconosciuto, che viveva lavorando aratri di legno e giocattoli per i bambini. Una vita così insignificante contraddiceva la fede di Israele. Perciò il rifiuto.
Marco riferisce la tristezza di Gesù, Luca racconta di un momento drammatico con il tentativo di gettare Gesù giù da una rupe nel vuoto. È l‘ammonimento del Vangelo a quanti possono essere portati da categorie mentali o da una religiosità trionfalistica a non avere l‘umiltà di ascoltare con libertà, pazienza di riflessione e coscienza che Dio può manifestarsi su strade e in situazioni che non sono quelle che vengono immaginate dall’uomo, con proposte e segni da accogliere e custodire. La diffidenza toglie spazio all’iniziativa d’amore di Dio, non rende Gesù uomo riconoscibile come il Figlio, lascia sempre più solo e pessimista chi si chiude in se stesso. Dio infatti non forza nessuno, ma continua a sollecitare i cuori senza pretesa di vincere con la sua onnipotenza.
Dice con amarezza Marco: “Lì non poteva compiere nessun prodigio e si meravigliava della loro incredulità”. Ma aggiunge, come per evidenziare che i passi di Dio sono adeguati alla povera condizione umana: “solo impose le mani a pochi malati e li guarì”.
Dirà poi sant’Agostino: “Dio che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te” (Serm.169,13). È bello questo Dio dalle mani legate dalla paura umana, che non rinuncia e attende.
Il brano del Vangelo di questa domenica è invito a non cedere alla tentazione di pensare che la scelta dei mezzi poveri non può essere da Dio e che è giusto pensare alla sua azione in termini di grandezza e di potenza. Un Dio che non fosse vincente sarebbe irrilevante.
Traiamone una conclusione.
Questo vale per l’episodio di Nazaret e per ogni tempo della Chiesa, per quei primi annunci e per quanti lo vivono oggi.
Scandalizza, anche oggi, l’umanità con i suoi limiti, la povertà dei mezzi, della cultura, la relazione difficile con le attese dell’umanità. Per aprirsi al divino che si incarna occorre amare la povertà dell’umanità in cui si incarna. Pena l’irrilevanza della professione di fede, con le sue conseguenze drammatiche.
È un invito a progredire nella maturità della fede, ad accogliere più pienamente la proposta di Dio per una reciprocità vera, che non presuma di essere all’altezza, perché la fede è dono dall’alto, e quindi è solo grazia. Ma il dono chiama all’amore, alla reciprocità, che è ricerca di un rapporto profondo, sincero, non rituale con il Signore. Questo è il massimo della relazione umana, alla luce del Vangelo. Un rapporto che dice, nelle molte sfaccettature della vicenda umana, il pensiero di Dio sull’uomo, sulla sua vocazione all’eternità, perciò sulla sua dignità, grandezza e libertà. Perciò nella Scrittura è detta ripetutamente la beatitudine di quelli che credono senza paure, pur nella coscienza dei propri limiti davanti al mistero della trascendenza di Dio, da Abramo a Maria, da Mosè ai profeti, da Pietro, che rinnega ma crede, a Tommaso che vede e tocca il Risorto, a noi che siamo chiamati alla stessa fede senza vedere.
“Credenti” è il primo aggettivo che identifica i discepoli del Vangelo di Gesù prima di venire chiamati “cristiani”.
Sempre in via, sempre pellegrini di un ascolto senza riserve e di una risposta “con tutta la mente e tutto il cuore” per vivere la comunione con Dio che ci ama nella dignità e libertà di figli suoi.