III DOMENICA T.O. – Anno B
(Gio 3,1-5.10; Sal.24; 1Cor 7,29-31; Mc 1,14-20)
Nella lettura tratta dal libro di Giona, con cui si apre la liturgia odierna, assistiamo ad una vicenda ricca di umanità. Giona, che pure è uomo di fede, avverte la chiamata, ma ha paura di dire sì. Il Signore lo chiama a predicare la conversione alla città di Ninive, ma egli ha paura: perciò fugge, passa attraverso mille traversie, finché il Signore gli rinnova la chiamata. Questa volta egli non si tira indietro e va. Sperimenta così l’obbedienza generosa degli abitanti della grande città, cosa che non avrebbe mai immaginato: Nìnive era la capitale dell’Assiria, l’Impero pagano che aveva distrutto Samaria e assediato Gerusalemme. Eppure “i cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono di sacco, dal più grande al più piccolo”. La fede di Giona, all’inizio così poco pronta all’obbedienza, viene rinnovata dalla conversione della città, di cui Dio ha avuto compassione. Il racconto – che vi invito a leggere per intero in una pausa di tempo – è ricco di spunti, spesso venati di ironia, come quando descrive anche gli animali vestiti di sacco. La potenza del nome del Signore rende possibile un rinnovamento totale, perché la misericordia di Dio è infinita ed opera in quanti le si affidano.
La conversione della grande città è invito alla conversione anche per Giona, l’inviato. La straordinarietà del perdono da parte di Dio è stata tanto abbacinante da renderlo incredulo: se Dio perdona così, non si fa complice del male? Anche l’annunciatore è bisognoso di conversione. Lo vedremo nel seguito del racconto: solo alla fine Giona accetta ed accoglie la misura infinita della misericordia di Dio. Domandiamo anche noi la conversione alla grandezza del cuore di Dio, domandiamo di riuscire a comprenderlo sempre meglio.
Siamo introdotti così alla lettura del Vangelo di Marco: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo”. La grazia è qui, siamo chiamati ad accoglierla nel presente. In qualsiasi condizione si trovi, l’uomo riceve sempre da Dio l’opportunità per ricominciare. Apriamoci a questo grande mistero: il nostro futuro è custodito dall’infinito amore di Dio e il presente va vissuto nella certezza del suo farsi vicino ad ogni creatura. In Gesù Dio è con noi in ogni momento. Ad ogni uomo è chiesto di credere al Vangelo, alla buona notizia di questa presenza. Accogliamo sempre più, con tutto il nostro essere la volontà misericordiosa del Signore: non fermiamoci al semplice consenso intellettuale, ma adeguiamo tutto il nostro comportamento all’annuncio di Gesù.
I primi discepoli avvertono lo sguardo del Signore, lasciano tutto e si mettono alla sua sequela. Convertirsi e credere non riguardano l’emotività, ma si fondano su di una motivazione profonda. Dire: “Vivo nel Signore” non è pura passività. Se rifletto sulla venuta, sull’intervento del Signore nella mia vicenda personale, in quella di ciascuno di voi, mi rendo conto che non si tratta solo di assoggettamento fiducioso. Il suo intervento restituisce alla mia responsabilità la grandezza della mia libertà. Domenica scorsa, nel Vangelo di Giovanni, abbiamo visto due discepoli accostarsi a Gesù ed egli li invita ad andare da lui: “Venite e vedrete”. Solo nel rapporto con lui possiamo scoprire il suo progetto, riuscire ad esprimerci con gratitudine e responsabilità. Così oggi, nel Vangelo di Marco, ascoltiamo il suo invito: “Seguitemi e vi renderò fecondi di vita, costruttori di umanità, pescatori di uomini”. L’amore con cui Dio ci chiama ci trasforma, perché egli ci vuole suoi collaboratori nella fedeltà e nell’impegno personale.
Anche oggi, in questo momento, il Signore ci ripete: “Seguimi”, mentre le ragioni dell’opportunità, di una razionalità tutta umana, ci condizionano, ci rendono legati ad un mondo, che è tanto lontano dal progetto di Dio. Ma Marco non concede spazio agli indugi. Dice: “subito”, “subito, lasciate le reti, lo seguirono”. Questa assenza di indugi di fronte alla chiamata del Signore, percorre tutta la Bibbia. Nel primo capitolo della Genesi leggiamo: “Dio disse ”Sia la luce!” e la luce fu”. Subito. Nel Vangelo di Luca Maria non tergiversa con l’Angelo e, dopo il suo annuncio, si dirige “in fretta” verso la casa di Elisabetta. Come dice S. Ambrogio: “La grazia dello Spirito Santo non permette lentezze”. In Paolo leggiamo: “Il tempo si è fatto breve”, è gravido di opportunità, che non possiamo lasciar cadere: “Passa la scena di questo mondo”. La realtà in cui viviamo ci propone uno scenario falso, che ci abbaglia e ci lascia più poveri, vuoti, delusi.
Le ragioni umane dell’opportunità e della razionalità ci abbandonano nella nebbia, nella palude dello stordimento generale, che colpisce tanti. Ci abbandonano nell’oscurità morale, che ottunde, abbassa la qualità della vita, priva di significato la tradizione, genera una società snervata, disarticolata. A quanti ascoltano il Vangelo è chiesto di seguire il Signore “subito”, come i primi discepoli. Paolo VI, profeticamente diceva che il mondo di oggi crede ai maestri solo se sono soprattutto testimoni.
Il credente ha la responsabilità di affrontare la fatica di ricercare le cause dell’ottusità dilagante. Ma anche di indicare le certezze capaci di orientare il cammino morale dell’uomo. È una fatica che non può essere organizzata dall’alto, ma che deve essere assunta da ciascuno di noi giorno per giorno, incominciando dalla famiglia, nell’amore scambievole e nella fiducia nel Signore che ci chiama a seguirlo. Dove stiamo andando? La drammaticità degli avvenimenti ci fa capire che l’assurdità dei comportamenti non è solo nei quartieri degradati come Scampìa, ma anche qui, accanto a noi, dove un liceale ha scelto di uccidersi.
Ascoltiamo la voce del Signore a Giona: “Va’ a Ninive, va’ a Napoli”, interessati di ogni tuo fratello, interessati di chi avverte la solitudine. Interessati dell’umanità anche nei suoi aspetti più laici, economici, culturali, politici. Ascoltiamo con amore e sollecitudine la Parole di Gesù: “Seguitemi e vi farò pescatori di uomini”!
Oggi la liturgia riprende la lettura del Vangelo di Marco, che ci accompagnerà fino alla Quaresima e poi dopo Pentecoste.
Le parole che leggiamo ci mostrano l’inizio della predicazione di Gesù:
“Venne in Galilea annunciando il vangelo di Dio e dicendo: il tempo è compiuto e si è avvicinato il regno di Dio. ‘Convertitevi e credete al vangelo’”
Mi soffermerò su tre parole.
Innanzitutto il tempo, mistero in cui l’uomo si dibatte da sempre, senza riuscire a dargli una definizione, a volte lungo, a volte atrocemente breve, tempo che ci aspetta, tempo che ci divora. In Marco il tempo è il compimento del regno di Dio, il luogo teologico in cui il regno si compie, come la conversione è il luogo, il compimento della fede. L’inizio della missione di Gesù coincide con il compimento della vita di Giovanni Battista, precursore del Signore, non solo nella nascita e nella predicazione, ma anche nel suo essere consegnato, come il Signore lo sarà. È un compimento che diventa un inizio: Marco dice che Dio ci è vicino nella persona di Gesù per conseguenza del compimento del tempo di Giovanni.
Comprendiamo così che il senso del tempo vissuto nella fede non è solo cronologico, ma è mistero di grazia. Quando siamo in sintonia con il pensiero di Dio nella vicenda della vita, allora la vita è “compiuta”, il tempo è pieno, anzi si direbbe che è terminato perché Dio è presente, il regno non è solo vicino, ma reale. E dove Dio è presente, il tempo è finito. Tutto è presente pieno: non c’è nulla da attendere. Non si tratta di una teoria: vi sono momenti, che tutti forse abbiamo sperimentato, in cui la nostra sintonia con il pensiero di Dio su di noi è così intensa da voler fermare il tempo, da sentirci in paradiso. È l’attualità, l’aggiornamento nel senso più vero della parola, anche se nella dimensione della crescita, senza pretesa alcuna di definitività. I discepoli di Gesù non dovranno porre sullo stesso piano la Chiesa sulla terra e il regno, il presente e il futuro, la storia e il compimento. Devono sapere che, ricevendo in dono la vita, i giorni, la capacità, le possibilità, ricevono qualcosa che prepara il compimento, l’inizio di qualcosa di nuovo. Gesù che è venuto, viene e verrà, passa attraverso il nostro tempo. I discepoli dovranno aver presente la paura e la resistenza di Giona come rischio sempre in agguato e sempre rivelatore della necessità di crescere. Il tempo è insieme luogo di grazia e di responsabilità.
Poi: convertirsi. La prima parola di Gesù in Marco è perciò sul compimento del regno di Dio, che si attua nel convertirsi, nel credere al Vangelo. Il verbo “metanoein” per i greci era equivalente di cambiare idea, ma nella Bibbia ha un valore più forte. Significa cambiamento della vita, che include il pensiero e le scelte pratiche. È coinvolta la vita privata e quella pubblica, quella etica e quella politica. Con la “metanoia” tutto nel credente si mette nella direzione di Dio. Nessuna realtà creata può essere assoluta per il credente. Solo Dio si può adorare, non il fidanzato, non il figlio, malgrado l’immensa tenerezza di una mamma. Perciò non c’è verità né possibilità di conversione se non c’è la fede. Si tratta della fede-fiducia, della fede-gioia-di-appartenenza, che nasce dal rapporto personale con Gesù.
Da questo rapporto ha origine per il discepolo la possibilità di “giustificare” il Vangelo, testimoniando la verità profonda di quello che vi viene annunciato ed esigito, facendo risultare plausibile la luce che la pervade, che è la verità dell’uomo e il suo compimento. Essere “sempre pronti a rendere ragione della speranza”, dice Pietro nella sua prima lettera (1Pt,3,15). Ho cercato una frase di un autore a noi vicino per esprimere tutto questo: “Essere testimoni significa farsi mistero; vivere in modo tale che la propria vita sia inspiegabile senza Dio” Scrive Emmanuel Mounier, pensatore francese del ‘900 esponente del “personalismo”. Giustificare il vangelo significa essere persone che lo comunicano con umiltà e sincerità, dicendo: “Il vangelo è qui.” Sarà proprio Marco a raccontare che Gesù “Istituì i dodici affinché fossero con lui e per inviarli a predicare” (Mc.3,14)
Dovremmo imparare, leggendo Marco, che egli propone questa “giustificazione” del Vangelo ai discepoli, mettendoli davanti all’accettazione o al rifiuto.
La terza parola è chiamata. Bisogna guardare con attenzione alla chiamata dei primi quattro. La scena è dominata da Gesù che passa, vede, parla, chiama, con tono carico di autorevolezza, quasi perentorio. L’invito è come un imperativo: “Seguitemi!”. I chiamati diventano soggetti solo rispondendo alla chiamata. E questa li raggiunge mentre vivono la vita ordinaria, in due, insieme, senza separazioni elitarie, senza privilegi di categorie. Colui che chiama è il Signore e domanda la disponibilità ad un cambiamento vero di vita, evidenziandolo nel segno del cambiamento di professione. Come finora avevano speso la vita per prendere pesci, ora dovranno darla per prendere uomini, che è la missione di Gesù. Per i due discepoli seguire significa unione personale con Gesù, partecipazione alla sua vita, perciò non solo apprendimento della sua dottrina, alla stregua dei discepoli degli scribi e maestri della legge, per mettersi poi “in proprio” una volta appresa. I discepoli di Gesù vengono chiamati alla comunione di vita e alla condivisione della missione. È una realtà così netta e radicale da comportare la separazione dalla famiglia, dal padre. Questo linguaggio quasi violento sta ad indicare sia l’autorità carismatica di Gesù, sia la serietà della chiamata all’annuncio del vangelo che non può essere considerata in modo dilettantistico.
Nella riflessione personale, nel corso della celebrazione eucaristica, prendiamo coscienza che la vocazione ad essere discepoli di Gesù è una chiamata di Dio, è uno sguardo di amore di Dio, che ha inizio – per noi – a un dato momento della vita, quando ce ne accorgiamo, ma che egli ha sempre avuto, prima ancora che nascessimo; anzi ci ha fatto nascere proprio per questo, per la vocazione, per il disegno che dobbiamo realizzare sulla terra, per il nostro “compimento”. La vocazione è qualcosa di grandioso, perché è seminata in modo personale nell’intimo di ciascuno, fa parte della nostra individualità naturale e soprannaturale, riguarda il nostro essere nella famiglia, nella comunità, nella politica, nel lavoro, con i nostri colleghi di ufficio. Aprendo la finestra al mattino e guardando nella strada la città, dobbiamo dirci: “Questa realtà mi appartiene, perché Dio me la ha data!”. È il motivo profondo della nostra vita, in cui ogni cosa prende senso.
Il termine greco chairòs – presente quasi unicamente negli scritti del Nuovo Testamento – indica il tempo non come concetto astratto, che lo fa sentire indefinibile, ma in senso concreto di momento prezioso in cui il progetto diventa realtà, il pensiero si fa opera, la parola si mostra credibile nella visibilità. Quando questo avviene, il tempo è compiuto, pieno. Pensiamo all’esperienza di chi diventa padre. Appena il bambino esce dal corpo della mamma ed emette il primo vagito, viene affidato al papà, muto di stupore: allora egli avverte l’esperienza del tempo pieno. L’incarnazione è il tempo di Dio compiuto. Davanti alla scena della natività un contemplativo come Bernardo da Chiaravalle dirà: “il pensiero di pace si è fatto opera di pace!”.
In questa concretezza, all’uomo è data la possibilità di vivere in pienezza per la sintonia con il pensiero eterno del Creatore, e la sua più intima aspirazione è il raggiungimento di essa, come in un binomio armonioso tra sintonia e sincronia, per l’incontro tra parola eterna e tempo fugace. È l’espressione che la fede cristiana pone sulle labbra di Maria: “Avvenga di me quello che hai detto!” (Lc.1,38).
Gesù inizia l’annuncio del Vangelo invitando ad aprire gli occhi sulla verità che precede chi la ascolta, di cui egli è il rivelatore. Tempo pienamente realizzato sarà la docilità della mente e del cuore per entrare in essa, con decisione di modificare quanto la contraddica: la conversione è l’adeguamento della coscienza a questa verità. L’esperienza che sovente lo Spirito dona al credente testimonia che, quanto più ci si lascia permeare dalla verità di Dio, più si avverte l’autenticità dell’esistenza, nella gioia del cuore e nella fiducia, nella capacità di scoprire sempre nuove realtà. La fede non è una sicurezza teorica, ma la certezza di una persona, di Gesù che è il Vangelo stesso. Seguendolo, lo si segue sempre più radicalmente, fino all’amicizia che coinvolge la mente e il cuore, nonostante le contraddizioni intime e le incomprensioni esteriori. Dirà s.Agostino: “Signore, fa che cercandoti ti trovi; e, trovatoti, ti cerchi ancora”.
La fede, in definitiva, è questa relazione intima di amicizia, amore, che – come abbiamo letto domenica scorsa nel vangelo di Giovanni – “fissa lo sguardo su Gesù” che passa, vede, chiama, progetta, scorge in ciascuno una possibilità positiva di collaborazione per quello che ha dentro e viene a svelare: “Vi farò pescatori di uomini”.
È una frase strana questa, soprattutto per gente che ha appena lasciato la propria barca, che sa il proprio mestiere, vissuto nella fatica di ogni notte. Strana anche per noi, che abbiamo orecchie sospettose come se nascondesse subdolamente l’intenzione di privarci della libertà. Ma Gesù intende proporre la collaborazione al sogno paterno di Dio sull’umanità come famiglia unita e trasformare quanti saranno disponibili in cercatori di uomini, capaci di entrare nel loro intimo perché vengano fuori dall’oscurità che li sommerge, di indicare loro la scintilla di bene dentro di essi, resa invisibile dalle tante ceneri che si depositano con le vicende umane dell’esistenza. Gesù incontra così l’umanità: ce lo mostrano gli episodi di Zaccheo, dell’adultera, della samaritana….
È l’inizio di una rivelazione che dovrà cambiare ogni prospettiva di adesione alla fede finalizzata al principio di benessere spirituale individuale o di gruppo, anche se di natura religiosa, per entrare in quella universalistica del bene supremo degli uomini che è la loro piena unità, perché si realizzi il giorno ultimo, la pienezza della vita.
Marco indicherà bene che cosa intende con il suo: “Vi farò pescatori di uomini”, quando presenterà l’incontro di Gesù con l’umanità con l’enfasi, la sottolineatura della parola “tutto”, “tutti”. Così, pochi versetti dopo quelli di oggi, quando Gesù sarà in casa di Pietro – di cui ha appena guarito la suocera-, dirà: “Tutta la città era riunita davanti alla porta” (Mc.1,33) e riferirà lo stupore dei discepoli: “Tutti ti cercano” (Mc.1,37). Tutti non indica una quantità, ma la tensione verso un’unità che non esclude nessuno.
Dunque “pescatori di uomini” è rivelazione della chiamata all’unità, come sintesi del vangelo, espressione che dice famiglia capace di coinvolgere ogni uomo, commensalità da cui nessuno è escluso, fraternità senza disuguaglianze nell’unica dignità dei figli di Dio.
Questa Eucaristia ci vede insieme al termine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, nella ricorrenza liturgica della conversione di Paolo, il quale ci dice con la concisione di chi sperimenta in se stesso che cosa è veramente importante nel “tempo che si fa breve”, l’universalismo di Gesù.
Ha ricordato Benedetto XVI:
“La piena unità è connessa alla vita e alla missione stessa della Chiesa nel mondo…
È questa la nostra responsabilità: che sia visibile nel mondo il dono di una unità in virtù della quale si rende visibile la nostra fede.” (mercoledì 21 gennaio 2009)
Consegno alla vostra meditazione una frase di s. Caterina da Siena, scritta in un tempo molto difficile per la Chiesa, mentre il papa sembrava non volersi impegnare per risollevarla:
“Io vedevo entrare nel costato di Cristo il popolo cristiano e lo infedele, ed io passavo per lo mezzo di loro, e Cristo mi dava la croce in collo e l’ulivo in mano e mi diceva che li portassi all’un popolo e all’altro”
(Lettera 219 a fra Raimondo)
È un invito ad essere operatori di unità nella pace.
Giona appartiene al popolo credente di Israele, ma ha difficoltà a dire il proprio consenso a quello che il Signore gli domanda, non comprende l’amore di Lui per il popolo assiro che tanto male aveva fatto ad Israele; perciò resiste all’invito di predicare l’urgenza della conversione alla città di Ninive, la grande capitale assira. Il Signore lo mette alle strette, con interventi prodigiosi (il naufragio che lo fa desistere dalla fuga, la bocca del cetaceo che lo sottrae all’annegamento) in modo che egli entri nella certezza che Dio è diverso da come veniva immaginato: la sua misericordia non è riservata ad un gruppo umano elitario, ma è proposta a quanti sono disponibili ad abbandonare la “condotta malvagia” e a decidersi sinceramente per una vita orientata verso il bene comune, l’armonia dei rapporti, la concordia tra i popoli. Questo il contenuto della profezia che viene domandato a Giona di proclamare a favore di Israele e di tutti gli uomini religiosi che tendono a chiudersi in ghetti privilegiati. “Io – Dio gli domanda di esserne convinto e proclamare – non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città nella quale vi sono più di centoventimila persone che non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra?” (4,11).
L’esperienza di Giona aiuta alla comprensione del brano di Marco che è come un’introduzione al ministero pubblico di Gesù, con le prime parole di Lui nel suo racconto. Del Signore viene detto “andò nella Galilea”. È ancora il movimento dell’incarnazione, Dio che nel Figlio si fa prossimo, vicino alla gente con l’intenzione precisa di cominciare da questa zona poco stimata dagli ebrei “per bene” a motivo della vicinanza dei popoli confinanti. Questa zona veniva definita “Galilea delle genti”, in senso dispregiativo perché a rischio che la purezza della fede venisse contaminata e si cadesse nell’ambiguità di matrimoni di uomini ebrei con donne pagane e viceversa.
Proprio a questa umanità incerta sulla propria identità etnica e religiosa, esposta al contagio dell’idolatria, Gesù si rivolge cominciando con l’affermazione del “tempo” che si è “compiuto”, perché Giovanni Battista ha terminato il suo compito con l’arresto cui segue la decapitazione e colui che egli aveva annunciato “è vicino”, tanto vicino che non resta alcun tempo di attesa. “Vicino” significa “è qui”, “eccolo accanto a te”, come appare nelle parole alla donna di Samaria: “Sono io che parlo con te” (Gv.4,26). La proposta è di accoglierlo subito, in qualsiasi situazione personale ci si trovi. Il regno di Dio vicino è Gesù stesso. In Lui si attua il Regno di Dio. Perciò conoscere e custodire le sue parole è il nocciolo dell’adesione concreta dei discepoli, ad iniziare dai primi quattro, ai quali viene detto prima di qualsiasi impegno operativo: “Venite dietro di me”.
I cristiani non sono innanzitutto seguaci di una dottrina, ma discepoli che “vanno dietro” alla persona storica che si chiama Gesù di Nazaret. Il loro dover essere sarà questo camminare dietro al Signore, mettendo i piedi dentro “le orme di Lui” come dirà san Pietro (1Pt,2,21), vivendone la Parola con la personalità che Dio ha dato a ciascuno, con tutta la ricchezza che caratterizza e rende “unico” ogni uomo, ogni figlio di Dio, chiamato a donare la propria vita.
Questi primi discepoli vengono scelti a coppie, due a due, e così verranno inviati a testimoniare, perché sia chiaro a loro e a quanti si accosteranno nel dialogo che il Regno si diffonde e si attua portandolo in sé, come un DNA personalissimo, e donandolo nel rapporto fraterno in cui il dono di sé e l’accoglienza del dono dell’altro dicano la natura trinitaria, a modo di famiglia, della fede.
L’andare dietro a Gesù, allora, nella fede cristiana, non genererà una spiritualità intimistica e individuale, ma comunitaria e costantemente dilatata nei fratelli, puntando alla realizzazione di un “popolo radunato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, secondo l’espressione antica di san Cipriano, rilanciata dal Concilio Vaticano II.
Perciò la conversione che Gesù annuncia e domanda non consiste prima di tutto nello sforzo umano, ma nel cambiamento che il Vangelo stesso, la Persona di Gesù vicino, opera in chi la accoglie senza resistenze, anche se nella debolezza. Il Vangelo non lascia come prima, ma genera una vita modificata dal camminare continuo dei discepoli dietro al Maestro. Il breve brano della seconda lettura liturgica è un esempio di questa modificazione intima e contagiosa del discepolo di Gesù, che si trova a ricomporre l’armonia dell’esistenza nell’accoglienza e nel dialogo, a considerare la realtà che gli compete sapendo che “il tempo si è fatto breve e passa la figura di questo mondo”.
Nasce l’esigenza, nella liturgia di questa domenica, di domandarsi quali sono gli orientamenti forti del cammino di ciascuno di noi, quale il rapporto concreto fra fede e vita vissuta.