V DOMENICA T.O. – Anno B
(Gb 7,1-4.6-7; Sal.146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39)
“Si recarono subito in casa di Simone e di Andrea”
“Subito”, l’espressione non è presente nella lettura liturgica. Nel cuore del Signore c’è un’esigenza forte di entrare in rapporto con l’uomo: come ha detto papa Benedetto XVI nella sua recente enciclica, l’eros, l’amore di Dio per l’uomo lo spinge sulle strade dell’umanità. Senza preoccuparsi per l’osservanza materiale del sabato, che limitava i passi, il gruppetto dei cinque, Gesù con i primi quattro discepoli, va a casa di Simone ed Andrea, ospite della loro famiglia.
Marco ama fare della casa, in senso sia generico che particolare, il luogo della sosta e dell’insegnamento del Signore, come per sottolinearne la predilezione per il luogo della relazione umana semplice, immersa nella confidenza e nell’affetto. Così descrive l’incontro: “subito” – che significa premura e trepidazione – “gli parlarono di lei” che “era a letto”. E Gesù, con atteggiamento altrettanto familiare “accostatosi, la sollevò prendendola per mano”. Nessuna parola, solo la potenza dell’amore che lo abita: “La febbre la lasciò ed essa si mise a servirli”.
Il Vangelo comincia a spiegarsi. L’amore ricevuto in dono risana la persona, risana tutti i nostri rapporti, restituisce all’uomo la capacità di farsi dono d’amore, di servire. È la vita, dice Marco, annotando la preghiera di Gesù, che si attinge dal rapporto prolungato con il Padre, fonte del suo cuore e della sua azione: la vita proposta ai discepoli, la vita risanata dall’amore è fondata sulla volontà di amare, frutto dell’appartenenza a Dio.
Presentando Gesù che entra con semplicità in una casa, si fa amico della famiglia, la valorizza e la conforta con gesti umani e affettuosi, Marco indica alla Chiesa la casa e la famiglia come luogo privilegiato del Vangelo; cosa che fu compresa e praticata fin dall’inizio, come appare con chiarezza dagli scritti e dagli esempi riportati dal Nuovo Testamento, che ci mostrano come i discepoli e le prime comunità cristiane per la celebrazione dell’Eucarestia privilegiassero la casa, dove si riunivano in gruppi di venticinque – cinquanta persone.
Oggi viviamo la giornata della famiglia, alla luce del rispetto della vita. La pagina del Vangelo di Marco ci aiuta ad approfondire il senso di questa giornata.
Quando guardiamo la famiglia con attenzione e affetto, la prima impressione che riceviamo è quella della febbre, della malattia. Alla famiglia, con una frequenza che dà sgomento, si addicono le parole di Giobbe: “a me sono toccati mesi di illusione e notti di dolore mi sono state assegnate” (Gb.7,3).
Viviamo questo momento di riflessione e di preghiera alla luce della Parola che la Chiesa ci ha voluto proporre. Il rispetto per la vita non può esaurirsi nel giusto rifiuto delle scelte drammatiche dell’aborto e dell’eutanasia; ma deve diventare coscienza chiara di quello che conduce a quei drammi, di quanto la salute della famiglia è ostacolata a fatti da urgenze e pressioni che, come martelli, avviliscono la speranza fino a fare apparire improponibile una gravidanza, magari desiderata, e angosciante un ricovero in ospedale per le attese interminabili e la disumanità dei servizi. È un’angoscia che porta ai gesti della disperazione sposi e ammalati.
Bisogna risalire alle cause. Penso con affetto alle giovani famiglie a Napoli, alla loro solitudine. La difficoltà si chiama problema “casa”, precarietà del lavoro. Quando c’è per tutti e due – perché quello di uno non basta – diventa difficile pensare con gioia al dono della vita, per il timore tutt’altro che fantasioso di non poter tornare al lavoro, una volta mamma. E, quando il lavoro non c’è, diventa difficile anche l’ordinarietà più umile, con la conseguenza del moltiplicarsi del rischio di incomprensioni, di tensioni, di mutismi … di separazioni portatrici di nuove piaghe. “Era a letto con la febbre”: quante volte si potrebbe dire della famiglia!
Marco ci dice che Gesù entra nella famiglia e la risana.
Il suo prendere per mano con tenerezza e condivisione è un incoraggiamento a non lasciarsi prostrare dagli avvilimenti, un restituire ad ogni rapporto, ad ogni parola, la sua verità profonda e saper costruire l’armonia fra “eros” e “agape” – come ci ha detto Benedetto XVI – senza separare né contrapporre le due tensioni fondamentali dell’amore umano: la tensione al bene primo delle persone umane, alla loro felicità, e la tensione alla crescita fino alla misura dell’amore senza misura, che è la prontezza a dare la vita per le persone che si amano, che è proprio la “agape”. Gesù, entrando nella famiglia, ci dà proprio tutto questo, testimoniando la vita della famiglia di Dio Trinità, che è totalmente amore. E ci insegna anche la responsabilità del lavoro, perché la parola “rispetto della famiglia e della vita” esca dalla retorica giornalistica e politica e si faccia gesto di condivisione, prenda per mano, sollevi, conforti.
Prendiamo oggi le parole di Benedetto XVI come itinerario ed augurio:
“In realtà eros e agape, amore ascendente e amore discendente, non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere.
Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre più di lui, si donerà e desidererà “esserci per” l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre e soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono”. (Dio è amore, n.7)
Custodire nel cuore: “l’amore risana”.
Per tre domeniche la liturgia propone l’incontro di Gesù con il male; attraverso il vangelo di Marco rinnova l’invito a fondarci su di lui per comprendere il senso e il valore della sofferenza.
Il testo ci mostra un miracolo poco vistoso: Marco lascia parlare i gesti.
“Subito gli parlarono di lei”. Quello di Gesù è un cuore che ascolta: la voce di Dio nella preghiera, il dolore dell’uomo fermandosi con lui. Da Gesù impariamo ad ascoltare l’uomo che soffre.
“Si avvicinò … la fece alzare … prendendola per la mano…”. Nessuna ritrosia nessuna paura di contaminazione, nessuna distanza. La forza che passa dalla mano che afferra alla mano di chi è debole è forza d’amore, potenza di Dio capace di risanare: “La fece alzare”, la riportò alla statura eretta, alla possibilità di muoversi, che è sinonimo di servire. La persona guarita comprende di dover servire i fratelli. Gesù che è la vita, dona la vita.
“Andiamocene altrove”: tutto lo spazio del dolore umano è in Gesù e Marco lo sottolinea martellando: “tutti i malati e gli indemoniati …tutta la città …tutti ti cercano!”. Guarigioni, preghiera, universalità. Marco sembra voler dare una sintesi del vivere di Gesù e sottolinea la presenza dei primi quattro discepoli – in particolare dei tre che saranno testimoni dei momenti più importanti di Lui – perché la Chiesa ne custodisca la memoria ed abbia ben presente a che cosa impegna seguire Gesù, ripeterlo in sé. I discepoli dovranno sapere che, prima di annunciare la parabola del samaritano (Lc.10), Gesù la vive.
Marco comincia a trasmettere che l’insegnamento di Gesù ha effetto: la sua parola guarisce l’uomo, come esperienza di salvezza. Proprio oggi lo ho sperimentato: ieri avevo incontrato una persona molto angosciata per la drammaticità della propria situazione. Abbiamo pregato insieme, come fratelli, credendo nella promessa del Signore: “Quando due o più pregheranno nel mio nome …” (Mt.18.19-20) Questa mattina è giunta la risposta di Dio: l’errore umano in una diagnosi inesatta. Accogliendo la parola giusta su Dio, l’uomo è restituito a se stesso, alla propria vita.
Ci si può fare un’immagine falsa di Dio, anche da parte dei credenti, strumentalizzandolo per la propria visione della realtà, senza comunione con lui. Quando Gesù parla di Dio non riferisce concetti astratti, non ne parla in termini di attesa di soluzione di problemi e di difficoltà. Donando il suo “essere nel Padre”- Marco lo evidenzia mostrando la sua preghiera in solitudine – dona all’uomo la possibilità, in qualsiasi condizione si trovi a vivere, di essere libero dalla paura, rassicurato per il superamento dell’immagine del Dio-contabile, che annota tutto nel libro del “dare-avere” e costringe ad un’obbedienza da schiavi. Queste immagini rendono odiosa l’idea di Dio, fanno pensare alla tirannide, minano la fiducia.
Gesù smentisce queste immagini con la presenza accanto a chi soffre. Non elimina la fragilità e la precarietà, prende la mano di chi soffre. Allo sporgersi del sofferente che grida corrisponde la sporgenza di Dio, che si rende vicino nel Figlio, fratello di ogni uomo.
Gesù non parla di Dio all’uomo sofferente, ma lascia che Dio stesso si manifesti nel suo atteggiamento e guarisca il cuore e il corpo. La paura e le false immagini, infatti, sono distruttive del senso positivo della vita e della pace del cuore, che solo la presenza rassicurante può ridonare, trasformando la condizione umana in condizione di fecondità e di dono, come è detto della donna: “si mise a servirli”. Questo è il vero significato dei gesti di guarigione nel vangelo. La presenza di Gesù svela e restituisce l’uomo all’uomo, lo rende pieno e libero, come ha detto Giovanni Paolo II, capace di fecondità e di dono, anche quando i problemi appaiono non risolti. La sua non è efficienza nelle cose, ma servizio alla vita, che è dono di Dio.
L’uomo, credente e non, si riconosce nel lamento di Giobbe: “Se mi corico dico: quando mi alzerò? La notte si fa lunga, e sono stanco di rigirarmi fino all’alba”; è torturato dal raffronto con gli “empi”; come dice il Salmo 73 “non c’è sofferenza per essi, sano e pasciuto è il loro corpo”. Giobbe al termine del libro, il salmista dopo la contestazione, come per una comprensione umile che, senza una mano amica che aiuti a rimettersi in piedi, non c’è che la prostrazione, si risolvono nell’affidamento: “ricordati…”. È la parola che, sul Golgota, sarà pronunciata da colui che muore accanto a Gesù; non otterrà risposta che tolga la solitudine della morte, ma fiducia, e morirà senza paura per il fatto che il Signore gli è vicino, condividendo la stessa solitudine nel grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc.15,34).
“Ricordati” è l’espressione di tutti gli uomini e le donne che non trovano vie di uscita al dolore, invocazione di tutti gli afflitti della terra, accanto ai quali Gesù si fa prossimo attraverso i suoi discepoli: “Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre” (Sal.73)
Impariamo dal Signore a scendere nell’abisso dei sofferenti, dietro a Lui che “discese agli inferi”, come dice il Credo nella formula apostolica. Impariamo da Lui a sentire con il cuore il dolore della persona accanto; a condividere la sua sofferenza, vivendola insieme a lei. Questo è il cristianesimo. Non la pretesa di consolare quello che è inconsolabile o di spiegare l’inspiegabile, ma l’essere accanto, il prendere la mano, l’annunciare la resurrezione anche quando non è Pasqua, perché, pur se non visibile con gli occhi, la Pasqua sia avvertibile con il cuore.
Ancora una giornata tipo. Gesù guarisce le malattie dell’umanità, accostandole con premura e confidenza, si fa prossimo dell’uomo prostrato da ogni genere di prove e sofferenze. Lo solleva prendendolo per mano, lo rimette in piedi, lo restituisce alla vita, lo abilita al servizio. Questi primi gesti pubblici sono l’annuncio, il preludio di quello che avverrà in modo definitivo con la resurrezione.
Perciò Marco, mentre racconta un particolare, ha lo sguardo sull’umanità intera e il desiderio di comunicare ai lettori l’universalità del dono che è in Gesù e ripete il vocabolo “tutti”: tutti i malati, tutti gli indemoniati, tutta la città, fino alla constatazione stupita: “Tutti ti cercano!”. È la chiamata a non lasciarsi catturare da nessun confine, come il Signore stesso conferma: “Andiamocene altrove, perché io predichi anche lì”. Gesù sa che le braccia della croce saranno grandi come il diametro della terra.
La scena della guarigione è di grandissima semplicità: “la suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva”. Il gesto che domenica scorsa abbiamo visto operare con potenza nei confronti dell’indemoniato oggi si rinnova con espressioni umilissime: avvicinarsi, prendere per mano, rimettere in piedi, riabilitare al servizio. Come per dire che i doni dell’amore di Dio sono gratuiti e non finiscono nella persona che li ha ricevuti, ma domandano reciprocità, a cominciare dallo spendersi silenzioso nella quotidianità. La donna guarita si sente subito spinta ad entrare nella stessa logica che guida Gesù. Egli dirà di sé: “il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita” (Mc.10,45). Gesù libera dal male perché l’uomo sia capace di servizio in modo concreto e continuato, come dice l’imperfetto: “li serviva”. La vita diventa servizio.
Ma guardiamo per un momento all’immagine della casa, nella bella coincidenza tra la pagina di Marco ed il giorno dedicato alla famiglia: ospitalità, amicizia, rapporti forti, semplicità, calore umano…
Fa pensare quel “subito” detto del Signore, che sembra anteporre all’urgenza della predicazione l’importanza di quella famiglia in cui si sta vivendo un tempo difficile – nel passo parallelo Luca parla di una “grande febbre”(Lc4,38), una febbre mortale. Egli, nella propria esperienza umana, porta la memoria recente dei trent’anni di Nazaret, si direbbe che ne abbia nostalgia, e la rivive entrando con discrezione e delicatezza nell’intimità di una famiglia, compiendo dei gesti che dicono la presenza paterna di Dio in quel momento di fatica, gesti che porta in cuore dopo averli visti tante volte nella relazione di Maria e Giuseppe tra di loro e con lui bambino, adolescente e giovane nel cammino di formazione che si conclude da adulto con il lasciare quella casa.
Ora quei gesti imparati diventano premura per la donna ammalata, lasciando che gli parlino di lei e lo inducano a ripeterli a favore di lei: “Si avvicinò, la fece alzare prendendola per mano”. La casa di Cafarnao con la famiglia che la abita diventa, per la presenza del Signore, la prima casa cristiana, dove i rapporti sono di tenerezza nell’avvicinarsi reciprocamente e nel prendersi per mano, per sanare le solitudini e accorciare le distanze, per rimettere in piedi e riabilitare all’amore, perché il guarito non viva nella preoccupazione di sé. In questa casa Gesù sceglie Simone ed Andrea perché stiano sempre con lui.
Così il vangelo di Marco, in questa domenica, diventa il vangelo della famiglia e aiuta a riscoprirne la preziosità per la vita umana.
Oggi la famiglia ed ogni convivenza umana hanno bisogno della scuola di Gesù nella casa degli uomini, come un’iniezione di amore che ridoni significato alle relazioni e vigore alla responsabilità. A Nazaret tutti siamo chiamati a guardare come a un modello, a Cafarnao come ad una possibilità reale perché c’è la scuola del vangelo. Guardare e vivere non solo come insieme, ma anche nella disponibilità individuale, giovani e anziani, sani e ammalati, figli e genitori, persone di rilievo e non arrivati al successo sociale. Tutti giustamente valorizziamo e proponiamo i sostegni istituzionali che favoriscano la vita della famiglia, ma non possiamo non avvertire il lamento che da essa emerge, come quello di Giobbe nella liturgia di oggi, con la domanda di umanizzare i rapporti.
Nazaret non è un quadretto edificante e devozionale, Cafarnao non è un episodio che incoraggi ad amare le suocere. Tutte e due le icone sono parola di Dio per indicare ai credenti, nonostante le tante sconfitte che oggi fanno delle famiglie sempre più spesso il “contenitore” del dolore umano, che la scuola di Gesù, intimo della famiglia, di ognuna di esse, salva e sostiene giorno per giorno.
Auguriamoci, nella preghiera, di saperci avvicinare reciprocamente nonostante le distanze, di saperci prendere per mano con tenerezza nonostante i mutismi, di saperci rimettere in piedi, “subito” come Marco ci ha detto, servendo per amore quanti il Signore ci ha donato.