VI DOMENICA T.O. – Anno B
(Lv 13,1-2.45-46; Sal.146; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45)
“ Lo supplicava in ginocchio”
Meditiamo queste parole in un clima di preghiera, perché la nostra fede possa crescere e motivare una operatività concreta.
Con questo gesto di implorazione Marco ci presenta la condizione del malato, resa più drammatica per quella malattia, che la tradizione antica riteneva segno di colpa e costringeva all’emarginazione più rigida, come abbiamo ascoltato nella prima lettura. La fede, tuttavia, rende libero l’ammalato di presentarsi a Gesù, come per un’intuizione che Gesù “può”, che ha in sé un potere di ricreazione e che questo potere si accompagna a una volontà di bene: “se vuoi … puoi”. A volte la mancanza di libertà è dovuta alla coscienza dei propri limiti, alla vergogna e alla timidezza che ci paralizzano, rendono difficile accettare l’aiuto di Dio e degli altri, tolgono alla libertà la gioia che accompagna l’andare a supplicare Gesù.
La reazione del Signore è di compassione e di ira. Il testo è incerto, perché nei documenti che riportano i termini greci originari c’è confusione: può trattarsi di compassione o di ira. Ma forse questa incertezza è anche un aiuto provvidenziale, ci fa intuire che la compassione è suscitata dall’angoscia umana come appare al capitolo ottavo: “… essendoci di nuovo molta folla, che non aveva da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: ‘Sento compassione di questa folla…’ ” (Mc.8,1-2). Gesù rivela un cuore compassionevole verso l’umanità: dimentica quelli che potrebbero considerarsi i diritti di Dio, sanciti dalla legge, e guarda solo al bene dei fratelli. La compassione è motivo forte in tutte le culture, specialmente in quelle orientali, anche di matrice buddista, da cui abbiamo molto da imparare. La sua ira è causata, invece, dal male che turba l’armonia della creazione ed è anche reazione per l’emarginazione, frutto della tradizione umana, che Marco riferisce ancora, a proposito di una guarigione in giorno di sabato, di fronte alla quale i dottori della legge non hanno il coraggio di prendere posizione: “Ma essi tacevano. E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore…” (Mc.3,5).
Gesù è indignato e rattristato dalla durezza del cuore, ma la sua ira è anche segno della determinazione del suo temperamento, del suo volere con forza combattere il male morale e fisico in tutte le sue forme, volontà che si manifesta non come un desiderio generico, ma col gesto concreto di toccare il malato, noncurante delle impurità legale: esso svela – come leggiamo su di un’iscrizione funebre greca – “Dio dalla mano che lenisce il dolore”. Perciò i malati vogliono incontrare il Signore e toccarlo.
Il malato guarito è mandato via subito. È la preoccupazione di Gesù nel Vangelo di Marco: mantenere il segreto sulla propria identità fino al momento della passione, che sarà lo svelamento pieno nelle parole dell’ufficiale romano:
“Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc.15,39)
Marco preferisce farci contemplare il Figlio dell’uomo, che agisce nella semplicità dei gesti umani, non straordinari e portentosi. Per comprendere bene Gesù, sembra dirci, bisogna conoscerlo come servo sofferente, in tutto il suo itinerario di dono totale, che avrà il suo culmine sulla croce. Perciò occorre che i discepoli ne condividano lo stile di vita.
Si direbbe che, nel racconto di Marco, vi sia l’incontro di due disobbedienze:
• quella del malato di lebbra, che infrange l’ordine di stare lontano e grida al Signore il suo dolore e la sua speranza;
• quella di Gesù che va oltre il divieto tradizionale e lo tocca, per testimoniare al malato vicinanza e affetto, mentre, secondo la legge antica, il lebbroso rendeva impuro chi lo toccava.
Per attualizzare ricordiamo le parole pronunciate da Giovanni Paolo II l’11 febbraio 2000, nella giornata del malato:
“Al tramonto del secondo millennio non si può dire che l’umanità abbia fatto quanto è necessario per alleviare il peso immenso della sofferenza che grava sui singoli, sulle famiglie e sull’intera società. Quasi sembra che, specialmente in quest’ultimo secolo, sia stato ampliato il fiume del dolore umano, già grande per la fragilità della natura dell’uomo e della ferita del peccato originale, con l’aggiunta di sofferenze inflitte dalle cattive scelte dei singoli e degli stati…Ho davanti al mio sguardo non soltanto i letti degli ospedali dove giacciono tanti infermi, ma anche le sofferenze dei profughi, dei bambini orfani, delle tante vittime dei mali sociali e della povertà”.
In questi sei anni non sembra che qualcosa sia migliorato.
Oggi papa Benedetto ci dice che nell’insegnamento e nei gesti di Cristo:
“si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo. Amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (19,37), … partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare” (Dio è amore,12).
Di questo amore, come credenti, non facciamo solo esperienza di ascolto, di qualcosa che ci viene annunciato. Partecipando all’Eucarestia, quest’amore incarnato di Cristo si fa nutrimento, comunione, diventa capacità di andare contro le proprie abitudini, per vivere la carità, ci coinvolge nel dinamismo dell’amore di donazione, in cui etica e carità si fondono con le caratteristiche della socialità. Nell’Eucarestia c’è l’esperienza dell’essere amati e contemporaneamente del poter amare, al di là dei propri limiti. Contemplando il fianco squarciato di Cristo, contempliamo Dio che va contro se stesso, rinuncia al proprio diritto, si lascia uccidere sulla croce, per amore. Si comincia a sperimentare la libertà di scavalcare i tanti divieti che la tradizione e il così detto “buonsenso” impongono, facendo del fratello bisognoso, anche se malato e sporco, dell’impegno nel territorio, il punto reale di incontro con Dio.
Questo dovrà essere il cammino della Chiesa obbediente al comando del Signore: “Fate questo in memoria di me”. Il Vangelo è il rischio che Gesù ci chiede, scavalcare i limiti della tradizione, della preoccupazione di quanto la gente dirà di noi. L’amore per il fratello bisognoso sarà manifestazione del “di più” di amore che Cristo porta dalla vita trinitaria, manifesta sulla croce e domanda ai suoi discepoli, perché lo vivano.
Ancora sofferenza, ancora Gesù che incontra chi soffre.
Il lebbroso, nel testo, intuisce il valore di una presenza: si fa avanti e si affida, “Se vuoi”. E Gesù lo conferma con la propria volontà. Tutto è all’insegna della compassione umana di Dio che, nella vicenda del Figlio fatto uomo, assume non un’umanità ideale, ma quella reale, perciò imperfetta e sofferente. Tutto all’insegna della compassione, che a nostra volta dobbiamo chiedere come un dono allo Spirito Santo, perché solo Dio può donarla.
Ancora la mano, prima della parola. È il simbolo dell’iniziativa di Dio che si china sull’uomo; e della libertà di cui Gesù è portatore, nella confidenza, che supera ogni divieto legale di contatto con la malattia. Nel comportamento di Gesù non vi sono situazioni inaccessibili, esse sono luoghi in cui Dio si rende prossimo e dice: “Lo voglio!”, “Voglio starti vicino!”
Ancora il riserbo, quasi ruvido: “Lo cacciò via subito”. Saranno altri a constatare la guarigione. Gesù rifiuta ogni trionfalismo chiassoso e sceglie di nascondersi, quasi timoroso di finire nel protagonismo, nel devozionismo miracolistico. Sembra indicare che Dio invita l’uomo all’incontro, in solitudine, in un silenzio in cui gli sia possibile di comunicare – nella voce di un “silenzio sottile, simile a un soffio” (1Re,19-12) – la sua sapienza eterna a riguardo di ogni realtà, compresa la malattia, senza ambiguità, ponendo così l’uomo interlocutore “dalla parte del proprio cuore”, nelle “viscere”, come dice il nostro dialetto e come dice la parola greca usata da Marco, secondo la cultura che poneva nelle viscere il luogo dei sentimenti più intimi e delicati.
Sembra emergere, in Gesù, la predilezione per l’incontro personale, che matura nel tempo, nel riconoscimento di quello che nasce dentro, quando lo si incontra in profondità, lo si ascolta, si comincia a seguirne la novità di idee e di programmi. Dal silenzio nasce la fede personale e fiorisce la decisione di testimoniarlo, di “narrare ai fratelli la sua misericordia” (Colletta). Nel silenzio matura la libertà dalla paura, quella che si presenta puntuale quando si viene chiamati a vivere qualcosa che appare sproporzionato alla propria capacità di gestione e di intervento; la libertà dal terrore che assale quando ci si trova davanti al male socialmente pericoloso e segnato, per di più, da una connotazione morale o religiosa, quando la si ritiene punizione o maledizione di Dio.
La situazione del lebbroso è ben indicata dal testo del Levitico: “Se ne starà solo, abiterà fuori dall’accampamento”. Così era la tradizione ebraica, incapace di intuire una qualche positività nella malattia, preoccupata di evitare il contagio.
La descrizione, che ci fa inorridire, suscita delle domande: la separatezza del sofferente riguarda solo l’ieri? Solo quella cultura? È solo questione del tempo passato, dei non cristiani?
La liturgia oggi ci popone l’incontro del Signore con una persona emarginata e sola ed invita all’attualizzazione, nella responsabilità di andare in profondità. Sorretti dalla parola di Dio.
Vi sono momenti in cui la malattia, del corpo e del cuore, corrode la mente, spinge alla separatezza, devasta con gli interrogativi e genera il rancore verso se stessi e l’indisponibilità al rapporto di amicizia ed al lasciarsi aiutare, fa sentire antipatici e di peso, conduce al rifiuto di Dio. E la spinta della società accresce il senso di marginalità con la negazione dell’imperfetto, del brutto, di quello che non corrisponde ai canoni dell’estetica in voga e fa male. Questa marginalità in cui si trova il sofferente rende incapace di comunione anche chi vive accanto alla persona che soffre. È molto difficile amare chi non si ama. È, purtroppo per tutti, sempre più frequente avere giustificazioni sincere per allontanarsene. C’è perciò una responsabilità sociale intorno alla sofferenza, che la riflessione recente chiama “peccato strutturale”, cioè frutto della struttura della società.
Sentirsi soli e fuori dalla convivenza umana condivisa è una condizione di separazione. Lasciare le persone nella solitudine, senza un vero e serio discernimento sul come aiutare i loro cuori prima ancora che i loro corpi; non conquistarsi, sia pure con fatica, la capacità di limare gli eccessi di impegni che soffocano la vita, forse accresce la patologia sociale dell’emarginazione. In buona fede ci appoggiamo ai fratelli e alle sorelle che vengono da lontano e ci sono preziosi con il loro aiuto. Ma non ci esimono dal servizio verso chi soffre. Forse è opportuno interrogarsi su questo.
La pagina del vangelo di Marco rovescia la situazione dai due versanti, il proprio e dell’ammalato. La presenza, mite, serena, povera di sé, di Gesù autorizza il malato ad avvicinarsi e a domandare: “Se vuoi”, e si colora di concretezza nel gesto rischioso di toccare. Il contatto significa: “Ti accetto come sei”. Gesù entra in relazione con il malato, i suoi sentimenti si “mischiano” con quelli di lui, gli comunica la propria integrità, e la lebbra emarginante sparisce, come una restituzione alla vita.
Gesù non si sottrae alla ricerca della relazione che tira fuori dalla fatica di accettare chi non si accetta in se stesso. Questa fatica aiuta a superare l’angoscia con il dono della “stoltezza della croce”(1Cor. 1,23). Pone nella propria persona il segno dell’attenzione alla persona umana, fino alla predilezione per i sofferenti, qualsiasi sia la radice del loro male: la colpevolezza evidente dell’adultera, la condizione “irregolare” della samaritana, la mensa ingiusta di Zaccheo. Condivide tutto, è specchio della fedeltà di Dio. Non elimina le contraddizioni dell’esistenza, ma accompagna l’uomo. Ci aiuta nel diventare capaci di accettare noi stessi e quanto soffrono nella convivenza senza rifiutare i limiti e cercando di porre i piccoli gesti che danno gioia e respiro alle esistenze provate.
È un dono che dobbiamo domandare con umiltà.
Ancora un’azione di guarigione istantanea che il Signore opera verso un uomo ben consapevole di essere preda della morte e portatore di essa. Malato e respinto dalla comunità sociale e religiosa. Solo Dio può risanare una persona nelle sue condizioni, come con una nuova creazione. Il lebbroso vede questa potenza ricreatrice di Dio in Gesù: “Lo supplicava in ginocchio”. E Gesù lo conferma nella fede con la sua volontà potente: “Lo voglio!”. Voglio quello che mi domandi perché hai creduto in me.
Marco ci dice, in questo primo capitolo, che il venire di Dio nella persona di Gesù è la rivelazione del suo amore di compassione, amore che lo obbliga a non passare accanto alla sofferenza umana senza condividerla in profondità, senza farla propria realmente. Nel suo Figlio incarnato Dio non è alla ricerca di un’umanità ideale, da copertina o da teoria del benessere ad ogni costo. Perciò Gesù prende su di sé la sofferenza nella sua verità più cruda, in una compassione portata come una sofferenza di Dio creatore che anela al ricongiungimento con le sue creature e mostra l’intensità del suo anelito doloroso nel punto massimo della rivelazione della croce.
Compassione concreta. Riascoltiamo i verbi che Marco ha proposto per la guarigione della suocera di Simone: “tese la mano, la toccò”. È la presenza di Dio Padre che si inclina, si protende, dona la forza facendosi debolezza, mostrandosi carico di tenerezza. È un’immagine che richiama la straordinaria opera d’arte di Rembrandt, l’abbraccio del vecchio padre al figlio che torna a casa nel capitolo 15 di Luca, dove le due mani sul dorso sono una maschile ed una femminile: forza e debolezza, decisione e tenerezza.
Presenza di Dio in Gesù che si muove nella noncuranza per tutte le prudenze e le cautele che la logica delle purità legali e religiose pretendeva di imporre, nella forte affermazione che non esistono ambiti e situazioni inaccessibili al farsi prossimo di Dio. Dove è l’uomo nella solitudine e nel bisogno di aiuto lì è Dio, il Dio della vita: “Lo voglio, sii guarito”.
I miracoli sono la testimonianza, i segni di questa realtà.
Perciò non bisogna fermarsi al miracolo, o cercare Dio nel meraviglioso, ma risalire all’amore compassionevole da cui è possibile essere ricreati e ripartire in ogni situazione umana. È a questo punto che si colloca l’incontro con Dio, nel suo essere compassione.
Marco sembra guidare il lettore, con questo episodio, alla scoperta di un altro aspetto dell’identità di Gesù. Dopo aver detto del suo insegnare con autorità, e non come gli scribi che si limitavano a ripetere con fedeltà quanto avevano appreso, e dopo aver mostrato il suo farsi prossimo a tutte le espressioni della sofferenza, nel brano che leggiamo oggi evidenzia come il Signore abbia a cuore la guarigione della persona umana in tutta la sua interezza. Non solo perciò la salute fisica del malato. Il prodigio della guarigione istantanea svela l’intenzione di una guarigione radicale, quella che sana la piaga più grave del peccato di cui nell’Antico Testamento la lebbra era considerata simbolo. Come, se non curata, la lebbra si espande e viene ritenuta inguaribile perché corrode il corpo intero, così il male dell’anima, non raggiunto e risanato dalla potenza della fede in Dio, produce nell’intimo dell’uomo gli stessi effetti devastanti che distruggono inesorabilmente la coscienza di sé e la forza di reagire, come la vicenda umana ogni giorno ci informa e ci ammonisce. Marco dice di non arrendersi al male, di non rassegnarsi all’inguaribilità, ed esorta con l’esempio del guarito a lasciarsi incontrare e toccare dal Cristo che è venuto per questo.
Vissuto in una comunità in cui la parola del comandamento dell’amore fraterno è custodita e praticata, il male non isola chi ne è colpito e non lo condanna alla prigionia della solitudine senza speranza, ma trova nella salute del corpo della comunità la forza per la guarigione della persona nel suo io più profondo e il vigore della lotta verso la vittoria, anche in senso scientifico che infatti è rinvigorito dalla speranza. Perciò i medici, i ricercatori, gli operatori della sanità sono strumenti del regno di Dio e immagine di Cristo Salvatore.
E c’è un’altra cosa che Marco dice oggi nella liturgia.
Risanando e reintegrando il lebbroso nella vita della comunità, Gesù prende posizione contro il peccato dell’emarginazione a cui venivano condannati dalla tradizione ebraica, giustificata dalla legge, tradizione che lasciava nell’abbandono e nell’angoscia quanti venivano bollati come impuri, in base alla razza, alla cultura, alla malattia, alla condizione sociale, all’handicap: ancora oggi i figli degli stranieri, ha ricordato il Presidente della Repubblica, anche se nati in Italia non possono riceverne la cittadinanza.
Gesù, ci dice oggi Marco, è venuto a chiamare i suoi di ogni tempo perché abbattano gli steccati, costruiscano ponti, facciano dell’umanità una famiglia di fratelli uniti. E questo seguendo la sua via in cui la vera, profonda guarigione è il miracolo di condividere con Lui quanto, Risorto, dirà ai due di Emmaus: “Non bisognava che il Cristo patisse tutte queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc.24,25).