V DOMENICA DI QUARESIMA – Anno B
(Ger 31,31-34; Sal.50; Eb 5,7-9; Gv 12,20-33)
Giovanni, nei suoi scritti, comunica il significato profondo, teologico di ogni scena che descrive. Quello del Vangelo di questa domenica sta nell’intenzione di proporre la realizzazione di quanto Gesù aveva preannunciato precedentemente: la propria vita offerta a favore dell’umanità intera. Nel capitolo 10 aveva lungamente parlato del suo compito di Pastore di un gregge, che – nella prospettiva universale dell’umanità tutta, di ogni generazione – doveva essere radunato per formare un unico “gregge” (Gv.10,1-21).
Nella donazione di Cristo fino alla morte, due sono le caratteristiche: l’universalità e la comunitarietà. Che “tutti siano una cosa sola”, egli chiederà al Padre, dopo l’Ultima Cena (Gv.17,21).
La venuta dei greci è importante per Giovanni, perché realizza, con la loro richiesta, l’universalità dell’attesa: “vogliamo vedere”, sinonimo di “vogliamo credere”, “vogliamo unirci a Lui”. Contemporaneamente è importante l’accoglienza da parte di quanti sono già discepoli: va sottolineato che Filippo, il cui nome è greco, è a conoscenza della lingua, ha la competenza, che lo rende capace di accogliere. Non solo, ma vive nella comunione con gli atri discepoli, perchè si consulta con Andrea. Competenza e comunione dovranno essere linee costanti del rapporto della Chiesa con l’umanità.
L’incontro tra l’attesa e l’accoglienza fa scoccare “l’ora” di Dio.
È dunque “l’ora”. E Gesù la vuole, anche se la sente con profonda sofferenza: “ora l’anima mia è turbata”. Questo turbamento si prolungherà fino all’agonia del Getsemani, che Giovanni qui anticipa. Il Vangelo di Marco riferisce le parole di Gesù: “l’anima mia è triste fino alla morte… Padre… allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc.14,34-36). Turbamento ben stampato nella memoria della Chiesa se essa lo inserisce nel Vangelo senza paura che possa diminuire la certezza della glorificazione del Signore. Quanto dobbiamo imparare a non aver paura dei nostri turbamenti, dei nostri sgomenti, quando Dio ci chiede di vivere l’ora della sofferenza! La Chiesa deve sapere che “l’ora” di Dio può domandare la fatica dell’accantonamento delle paure e della preoccupazione della propria persona.
E, difatti, con la parabola del seme che muore, il Signore parla della morte come mezzo per conquistare la vita. Collegandosi alla venuta dei greci, vuole dirci che la vita arriva a tutti gli uomini attraverso la morte di Gesù. E Giovanni ci pone dinnanzi a questa morte come al dono, la grazia, che mette gli uomini di ogni tempo, in condizione di andare verso Dio. Il seme è Gesù stesso. La sua strada sarà quella dei suoi, ai quali si rivolgono le parole del versetto successivo:
“Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.”
La strada percorsa dal Maestro diviene la stessa che deve percorrere il discepolo. Gesù apre la strada per tutti perché possano seguirlo fino all’incontro con Dio: andando oltre il suo turbamento, nella decisione di dare la vita, diventa modello e maestro per i suoi. Condividendo la realtà della croce ogni credente raggiunge la vita di Dio, nella perfezione dell’amore e può offrire la vita ai fratelli. È difficile: ma mentre siamo chiamati a celebrare la Pasqua dobbiamo comprendere che solo colui che si perde per amore è colui che si realizza. È il cuore trinitario del Vangelo e della spiritualità cristiana, di universalità e di comunione. Il più grande ostacolo a questo cuore e a questa spiritualità sta nella paura di perdersi, di sacrificarsi, nel presente della vita. Gesù avverte con chiarezza ogni discepolo: l’attaccamento a se stesso impigrisce lo spirito, lo attanaglia nella mediocrità del compromesso, mentre la maturità è indicata nella donazione che si fa servizio ai fratelli ed è feconda nell’amore. In ogni tempo uomini e donne testimoniano questa dimenticanza di sé: così Francesco di Assisi che consegna i suoi vestiti al padre, così Teresa di Calcutta, così Sandro Canton. Sono queste le scelte vere della vita cristiana. Che cos’è una vita spesa? Giovani Paolo II nella sua sofferenza insieme ripugnante e affascinante diceva: “Lasciatemi andare dal Signore”.
La altissima profondità di questo insegnamento del Signore ha il suo culmine nel versetto 26 che dice:
“Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà,”
Si può capire perché i Sinottici ripetano spesso le esigenze radicali per essere discepoli: alla fine del cammino c’è Dio che ci attende e ci “onorerà”. Sembra così che la fredda impassibilità del dio dei filosofi sia annullata per sempre. La croce non è pesantezza se alla fine del cammino di fede c’è questa vertiginosa realtà, c’è il paradiso del Padre di Gesù, che è festa di amori che si incontrano, di fedeltà che si riconoscono con gratitudine senza fine, è reciprocità di tenerezza e di doni condivisi.
Quanto diventa importante, nel cammino quaresimale, la concreta e piena sintonia tra il Signore e chi lo segue, come realtà da imparare e migliorare sempre:
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce” (Fil.2,5-11)
Tutti, oggi, dovremmo far tesoro di quanto ci ha detto Geremia del rapporto vero con Dio, nella prima lettura.
Tanto alto questo traguardo che viene da pensare che il turbamento di Gesù sia dovuto non solo alla previsione della sofferenza personale, che ce lo rende tanto vicino, ma anche – e perché non – all’emozione per questa cosa grande che Dio opera nella sua creatura umana, per la quale il Signore sta donando la vita. In lui, seme disfatto per amore, si sta realizzando il desiderio eterno del Padre e il desiderio dei greci che esprime quello di sempre dell’umanità della sua attesa: vedere Gesù.
È l’attesa del nostro tempo: coltiviamola per poterla cogliere.
L’ora, che nel vangelo di Giovanni è quanto il Padre propone al Figlio dall’eternità, il disegno oggettivo del compimento del destino di Cristo, e dei discepoli che lo seguono nella tensione a vivere da figli di Dio; quest’ora è anche il momento soggettivo della percezione e del compimento. E Gesù ne sente profondamente la drammaticità, come ogni uomo, nella sua acutissima sensibilità: “L’anima mia è turbata”.
Nel vangelo di Giovanni è il passaggio dal “libro dei segni” al “libro dell’ora”, culmine della vita di Gesù. E’ una lotta, che i Sinottici descrivono nel Getsemani, Luca nel suo aspetto fisico di sudore di sangue, Matteo e Marco con la paura, la preghiera senza risposta, la ricerca di aiuto dai tre discepoli presenti. In Giovanni il combattimento è interiorizzato: Gesù è turbato, ma resta in piedi, non si tira indietro: “Per questo sono giunto a quest’ora”. La vittoria della fede sull’angoscia, la sottomissione nell’obbedienza è espressa in: “ Padre, glorifica il tuo nome”.
Avere fede, in quella situazione, è certezza che il Padre sta operando qualcosa nell’essere del Figlio, proprio mentre viene colpito e la morte prevale su di Lui, certezza che, mentre si fa notte nella esistenza di Lui, qualcosa comincia in Lui. Non ci sono spiegazioni umane per questa logica. Perché, a livello razionale, la morte appare l’ultima espressione della debolezza umana, l’entrare in un dissolvimento senza ritorno, la certezza di finire senza che resti traccia. E, tuttavia, la morte di Gesù, vissuta come obbedienza al Padre, come espressione assoluta di adorazione che accoglie e di amore che offre, come comunione, come intesa che accantona ogni pensiero di autodifesa, si mostra un nuovo inizio, fecondo di “molto frutto”, nell’immagine del seme. La voce dall’alto che risuona in questo momento di agonia anticipata, avrà risposta nel “tutto è compiuto” del venerdì santo (Gv.19,30). Vedere il compimento in questo momento oscuro è il centro della fede: è l’annuncio di una glorificazione che ha il suo versante intimo nel rapporto con Dio, ma contemporaneamente quello storico nella fecondità inesauribile che si manifesta con l’attenzione al Crocefisso in ogni tempo: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”.
L’evento della croce non si ripeterà. Resterà unico, per gli uomini di tutti i tempi. E noi, credendo in Lui, celebriamo l’Eucaristia per entrare in quell’evento unico.
Con quanta fecondità intimasi realizzi quest’incontro ognuno sa nella propria vicenda personale, fino a lasciare stupiti nella gratitudine e incapaci di rispondere al domandarci come ce l’avremmo fatta, se il Crocefisso non ci avesse attratto.
Pier Damiani, eremita vissuto all’inizio dell’XI secolo, così scriveva:
Colui che, esteriormente, per la morte che ha accettato, rischia di irritarmi, mi intenerisce con la grazia di un’intima soavità.
Colui che, con la sua passione, è diventato per me un mazzo di mira, rimane sul mio petto per la dolcezza del cuore.” (s. Pier Damiani, sul Cantico 2,5)
Si può,dunque, rischiare di irritarsi nella ribellione della mente, ma si può conoscere la dolorosa dolcezza della mirra.
E’ un invito a far crescere la fiducia in Dio, ad abbandonarsi a Lui mentre ci domanda il dolore, qui espresso dal mazzetto di mirra.
L’attrattiva della Crocefisso raggiunge ogni uomo, senza escludere nessuno, come una proposta di bellezza e di speranza, come una grandezza che affascina, precedendo la consapevolezza di fede, come qualcosa che tocca tutti gli uomini. Gesù lo dice: nella sua elevazione diviene il cuore del mondo, l’interrogativo che interpella l’umanità, Colui che si fa, prima o poi, interlocutore di ciascuno. Si può pensare al Cristo velato, che custodiamo a Napoli e che invita al silenzio o a quello del “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, violento nelle parole, quasi ripugnante nella sofferenza. Dobbiamo imparare che anche le espressioni blasfeme, del rifiuto, della ribellione urlata, scritta o raffigurata, sono il Crocifisso che ci raggiunge nei nostri inferni – anche se ci fanno male al cuore.
Chi vuole vedere e conoscere Gesù deve contemplarlo innalzato, altrimenti Egli non può essere identificato e viene trasformato in mito. Guardato con attenzione intima, è chiave di unità nella ricerca della riconciliazione e della pace, è via al superamento delle tante espressioni di regressione a cui siamo spinti dalla logica dell’efficientismo, è strada di liberazione dalle preoccupazioni e dalle paure per l’annuncio del vangelo, che è frutto di Lui e non delle programmazioni più o meno perfette.
Ha scritto Olivier Clément, il teologo ortodosso, morto a gennaio di quest’anno (cito alcune frasi):
“Il cristianesimo del XXI secolo non sarà moralismo, né pietismo, ma l’annuncio – che chiama ad una santità creatrice – della vittoria di Cristo sulla morte e sull’inferno…
E’ forse ormai la sola via che possa essere insegnata agli innumerevoli eredi del nichilismo, agli impazienti sempre delusi che sprofondano nell’inferno della droga, dell’erotismo, del terrorismo, della follia…
Che cosa importa il numero? … La tettonica a zolle ci insegna che uno spostamento di qualche millimetro negli strati profondi della crosta terrestre provoca un terremoto in superficie! In questa prospettiva “un uomo può salvare l’universo intero”. (Kazatzaki)
Una spiritualità creatrice – in cui più ci si sprofonda in Dio, più si diventa responsabili degli uomini – costituisce la vera infrastruttura della storia (per riprendere, rovesciandolo, il vocabolario marxista). “Nella divino umanità del Crocifisso si ricongiungeranno l’Occidente e l’Oriente cristiano, il primo mettendo più l’accento sull’amore attivo, sul servizio del prossimo, il secondo sulla “deificazione” come strumento di salvezza.” (in Avvenire 22-3-09).
Ecco, Geremia aveva profetizzato la fede nel cuore, la uova Alleanza. Il Crocifisso la realizza e la propone, come Colui che attrae i cuori. Domandiamo il dono di un’adesione piena e convinta, aiutati dalla nota espressione di Dostoevskij: ”Il bello è l’ideale. Esiste nel mondo una sola ed unica figura positivamente bella, Cristo… Questa figura infinitamente bella è senza dubbio un miracolo perpetuo” (cit. da von Balthasar ne “Il cristiano come idiota“)
Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale,contemplando nel volto devastato del Crocifisso tutta la negatività, fatta propria per amore dell’uomo, Chiara Lubich lo sentiva e lo proponeva come modello e via di vita nuova:
“Quanto sei bello in quel dolore infinito, Gesù Abbandonato!”
(Scritti spirituali 1 “Eli, Eli, lama sabactani”)
“Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me”
Nel racconto del vangelo di Giovanni Gesù andò a Gerusalemme per l’ultima volta quando mancavano pochi giorni alla festa di Pasqua. Sarà la Pasqua della passione e della morte ed egli la attende intensamente come la sua “ora”. La tradizione cristiana ha amato indicare questa parte del quarto vangelo come “il libro dell’ora”.
Come ogni uomo che vive il compimento del proprio destino, Gesù avverte un turbamento profondo: “l’anima mia è turbata”. Essere Figlio di Dio non toglie nulla alla verità della sua umanità, perciò vive la sofferenza del corpo e della sensibilità. Quello che gli altri tre evangelisti raccontano della “agonia” (termine che deriva da “agone”, cioè lotta nel circo, tensione intensa), Giovanni lo anticipa qui nel turbamento, nella paura, nella reazione davanti a quello che gli appare inaccettabile. È la coscienza più profonda a dover emergere; il ricordo del “sì” detto al Padre da tutta l’eternità, la sua offerta per l’umanità con l’”ecco manda me” (Is.6,8), deve essere richiamato perché è venuto il momento : “Che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora”. Nel momento dell’oscurità e della paura, Gesù ritorna alle ragioni che sono all’origine dell’incarnazione e dell’obbedienza. Così insegna a tutti noi, provati dagli insuccessi, dalle stanchezze e dal buio, che il compimento avviene nel ripartire dalle ragioni del sì che hanno dato origine alle scelte e alla responsabilità.
Dominando la sensibilità, Gesù si immerge nel dialogo con Dio, fidandosi ed affidandosi a Lui. Non domanda perciò di essere esentato dalla morte che, come ad ogni uomo, appare una fine, un dissolvimento che non lascia traccia. Il sì dell’adorazione, nel silenzio di qualsiasi conforto, lo conduce alla comunione con il Dio della vita, proprio nell’ora della morte, nel coraggio della preghiera per domandare la gloria di Dio, quella che aveva insegnato a porre nella prima richiesta del “Padre nostro”. È qui che sperimenta la presenza affettuosa e autorevole del Padre nella voce dall’alto. Ed è questo il momento per lasciare, come un testamento, che sia chiara ai discepoli la sintesi della Sapienza divina, ed egli lo fa ricorrendo all’esempio del chicco di grano che si vede disfare e morire nella terra, ma non è distruzione perché nel suo disfarsi produce “molto frutto”.
Fa impressione cogliere nei particolari del racconto questa infinita fecondità. Gesù non è andato oltre i confini della Palestina, ma, poco prima della morte, Giovanni indica l’universalità dei frutti che essa porterà. Sono alcuni “greci”, come gli ebrei definivano i pagani, che chiedono di incontrarlo, e sono Filippo e Andrea, nomi di cultura ellenistica, che vanno da Gesù per fare da intermediari. Come non vedere in quello che Egli risponde: “Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”, la rivelazione della presenza e dell’amore personale di Dio per la vita di ogni uomo di ogni tempo? L’evento della croce non si ripeterà, si pone nel cuore della vicenda umana come un presente che si dilata in continuità, una volta per tutte, su ogni versante del cammino individuale e sulla complessità dell’esistenza umana, senza che si estenui il suo fascino e la forza del suo perdono, di riconciliazione, di inizio rinnovato di ogni cosa e di ogni relazione, il suo essere fonte di pace in cuore e di concordia sociale. Non è escluso nessuno. Gesù si rivela nel suo essere “innalzato”, e questo tutti gli uomini sentono come una parola viva che si dice ancora prima dell’adesione della fede, che farà gridare a Paolo atteso sulla via di Damasco: “Mi ha amato ed ha consegnato se stesso per me” (Gal.2,20). Nell’innalzamento sulla croce si intuisce che Gesù è diventato cuore del mondo, la chiave dell’unità tra i diversi, la via per perseguire con i fatti il bene verso cui l’umanità è chiamata a convergere.
Perciò Giovanni dice che chi vuol “vedere” Gesù, nel senso di conoscere dal di dentro, nell’intimità, lo deve guardare nella sua morte in croce. Il mostrarsi “innalzato” fuori dalla porta, espulso dalla città degli uomini, è la risposta ai greci e a quanti sono “cercatori di Dio” in ogni tempo. Non si tratta di sapere o di guardare la croce come conforto o ispirazione. Non solo questo, almeno. Ma si tratta di entrare e condividere la spesa della vita, “rata” per il bene dell’umanità.
Giovani inserisce qui quanto i vangeli sinottici avevano scritto, qualche decennio prima di lui, l’insegnamento del Signore sul rapporto tra fede cristiana e vita donata per amore degli uomini: “Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt.16,25). Gesù nel suo “sì” dice a quanti vogliono essere suoi discepoli di non aver paura di una strada su cui si innalza la croce, di imparare ad accoglierla giorno per giorno nella modalità che il cuore e la mano di Dio prevedono per ciascuno nella sequela del Figlio che “pur essendo tale, imparò l’obbedienza da ciò che patì … con forti grida e lacrime”.
“Signore della croce, aiutaci a credere ogni giorno di nuovo nella forza della misericordia di Dio.
Ricordaci che noi dobbiamo sempre stare sotto la serietà della croce, accettarla nella figura della sofferenza che purifica.
Nessuno di noi può dichiararsi senza peccato: è necessario ricominciare ogni giorno come se fosse il primo, affidandosi alla tua misericordia” (C. M. Martini)