I DOMENICA DI AVVENTO – Anno C
(Ger.33,14-16; Sal.24; 1Ts.3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36)
Ogni anno, all’inizio dell’Avvento, la Chiesa ci fa leggere nei Vangeli Sinottici l’annuncio del rinnovarsi della presenza del Signore nella vita di ciascuno di noi, nella storia tutta. Il nostro Dio è il Dio della storia: la fede ci assicura che tutta la storia ha il proprio compimento nel suo amore. Il credente, allora, non può vivere pensando che non vi sia altro, al di là della deterministica catena degli eventi, che sperimentiamo. La sapienza che viene dalla fede ci rivela che lo scopo della storia è al di là della storia stessa. Essa si autotrascende, perché cammina verso il futuro, verso l’omega, il momento in cui il Risorto ricapitolerà in sé davanti al Padre “le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli”. Questa sapienza ci invita a migliorare la qualità della nostra vita.
Il linguaggio apocalittico con i suoi accenti catastrofici non vuole presentarci uno spettacolo dalle tinte forti. Esso ci trasmette invece un messaggio di speranza: i rivolgimenti, le calamità da sempre presenti nella storia non devono trarci in inganno, non ci devono sconcertare. Essi hanno una valenza positiva perché – come dice Bulgakov, il teologo russo sopravvissuto alle persecuzioni sovietiche – ci guariscono dalla credenza di un trionfo tutto umano nella storia, dal sogno orgoglioso di poter realizzare sulla terra il paradiso.
Facendo iniziare l’anno con questa pagina, la liturgia ci annuncia che la storia non dura per l’eternità: essa ha un limite anche nella sua positività. Il credente deve scegliere se restare fermo all’immagine di un’immanenza senza termine o proiettarsi verso il futuro di Dio, rendendo così la sua vita trasparente alla trascendenza. Da cristiani siamo chiamati alla testimonianza di questa trascendenza.
Nella seconda lettura abbiamo ascoltato l’invito di Paolo a comportarci “in modo da piacere a Dio” per “accogliere la venuta del Signore”. È un invito a non lasciarci appesantire da quanto può ostacolare la presenza di Cristo in noi – e attraverso di noi nella storia. È un invito alla sobrietà. È un invito ad uscire dalla mentalità puramente economicistica, che domina la nostra epoca, riconducendo ogni valore al danaro, per aprirci alla relazionalità verso Dio, verso i fratelli. Per sobrietà non si intende assolutamente risparmiare, ma aprirsi sempre più alla libertà interiore per divenire capaci di accogliere l’altro, per divenire premurosi, attenti alle esigenze di ogni fratello, pronti a pagare di persona per divenire costruttori di solidarietà. Anche di fronte all’indifferenza di tanti.
Nel gruppo dal nome simbolico: “Andare oltre”, che si riunisce qui, a Piedigrotta, abbiamo riflettuto su come cercare questa sobrietà cristiana, che rende felici e abbiamo deciso di proporla come linea direttiva del nostro cammino di fede in questo tempo di Avvento. Il Figlio dell’uomo viene tra noi, è alle porte. Il tempo dell’Avvento ci annuncia questo fasi prossimo di Dio nella persona del Figlio: egli si accosta ai nostri cuori. Ho sperimentato la malinconia di fronte agli avvenimenti di questi giorni: mi fanno temere che la mia vita possa tramontare in questo modo, nella caduta di ogni speranza. Ma non è così: il Signore ci chiama, ci invita alla pace che nasce dalla relazione vera. Con la tenerezza della sua presenza costante ci dice che le sconfitte dei tentativi umani di realizzare un mondo di pace non sono la verità ultima.
Il Vangelo di Luca ci invita proprio in questi momenti a levare il capo nella certezza di questa sua presenza, che è annuncio di liberazione. Qui è la gioia del Natale. Fare attenzione ad “abbondare nell’amore vicendevole e verso tutti”, come ci raccomanda Paolo, a dare senza misurare, a dare per primi e con eccesso in questo mondo così avaro di affetti. Ogni volto di uomo che avviciniamo è il volto del Signore che è qui. Essere pronti per questo è la gioia che ci annuncia il Vangelo.
Domandiamo allo Spirito che ci dia l’impegno per camminare in questa direzione!
“Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione, nell’attesa della tua venuta!”, è l’annuncio che risuona nel cuore di ogni celebrazione eucaristica, un annuncio di fede nella presenza di Dio nell’oggi e nella storia.
Parlare di attesa oggi, nel tempo dell’efficienza e del ritmo breve, può sembrare poco attuale. Non sappiamo più attendere. Ma la visione cristiana del tempo mette il credente – come indica il termine latino – in “ad-tendere”, in attenzione al Cristo venuto e in tensione verso il suo venire nel futuro.
E questa visione appare tanto più urgente nell’oggi, per il prevalere di assuefazione al tempo senza significato, fatalistico, che scorre senza alcuna attesa. Essere credenti che attendono, significa vivere con pace l’esperienza della incompiutezza, della precarietà, e così aiutare l’umanità a non cadere nella idolatria dell’efficienza, che pensa di saper tutto risolvere. Infatti l’attesa richiede la pazienza, che è l‘atteggiamento della forza interiore dinanzi alla incompiutezza e alla precarietà.
L’attesa è la virtù propria del tempo dell’Avvento – quest’anno più breve, perché durerà solo tre settimane. L’attesa paziente non è rinuncia, ma capacità di sostenere il tempo e le situazioni, di rimanervi dentro, nonostante le fatiche e le ripugnanze, facendosi vicini ai fratelli, “sopportandoli”, cioè portando i loro limiti, le loro negatività. Ma è l’attesa del Signore a donare questa capacità di pazienza attiva: anche se Dio è iniziatore di ogni vita, è un Dio che attende. Quando S. Paolo scrive che “l’amore è paziente” (1Cor.13,4), indica un’espressione di maturità spirituale che dice convinzione profonda e stabilità di sentimenti. Se c’è l’attesa del Signore come bene primario, si sa discernere il valore di quello che accade, si sa disciplinare i desideri, si sa porre una distanza fra sé e l’oggetto del desiderio, si sa stare nella verità di se stessi e del proprio impegno, si sa passare dal consumo alla comunione, entrando in quella dilatazione del cuore che fa diventare il proprio cammino come voce della creazione che “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio … e nutre la speranza di essere lei pure liberata” (Rom.8,19). L’attesa del Signore non è fatto privato ed intimistico, ma invocazione di salvezza e condivisione con l’universalità della sofferenza umana.
Ma “che cosa abbiamo fatto dell’attesa?” diceva già nel 1930 Theillard de Chardin, gesuita scienziato e teologo. Quando pensiamo all’Avvento, siamo istintivamente portati a pensare ad un tempo prima di Cristo, senza di Lui, e ad un tempo successivo, con la salvezza ritrovata, perché Lui è venuto. Ma così la stessa celebrazione liturgica rischia di essere solo commemorativa, come una sacra rappresentazione che, al massimo, si limita all’emozione. Se guardiamo la realtà umana nell’ottica della fede, ci rendiamo conto che la redenzione deve ancora venire ed è urgenza dell’oggi.
Il testo di Geremia di oggi e quelli di Isaia, tipici di questo tempo, prevedono i redenti come uomini di giustizia e di pace: lo leggiamo mentre popoli che si dicono cristiani pensano di indurre altri popoli ad un vivere più umano, bombardandoli. O di indurre alla “conoscenza di Dio” (Isaia), mentre siamo divorati dal consumismo, proprio per celebrare il Natale, la venuta di Gesù!
Quello che è tentazione per il cristiano di oggi non è tanto la questione teorica su Dio, ma l’apparente inefficacia del cristianesimo che impedisce di vedere il rinnovamento del mondo. Da questa oscurità nasce il pessimismo di tanti, che è come un essere costantemente ricacciati nella nostra miseria, “nel tempo della notte dello spirito e della cultura”, come diceva Giovanni Paolo II, riferendosi alla crisi dell’Occidente.
È qui che comprendiamo che il Signore non ci parla solo dall’al di là, come capita alla teologia quando si trova nell’angoscia della disparità tra l’ideale annunciato e la realtà; il Signore ci parla di tutto l’uomo e del presente, dell’uomo nella sua corporeità, nella sua comunità civile, nella sua storia. Ma in questi anni ci sembra che il Signore non sia ancora venuto. Chi di noi può dire che, nel suo intimo e nel vivere familiare e sociale, il peccato è vinto definitivamente?
Siamo così condotti ad imparare di nuovo la verità dell’Avvento. E cioè che è sempre tempo di Avvento. La verità che l’umanità è un’unica umanità davanti al volto di Dio, che è santo ed è luce, in una condizione di tenebre, tutta chiamata alla luce, perciò tutta da redimere. Per questo la sola celebrazione del passato è, come minimo, ambigua, ed è come un cadere nel rifiuto della fede. Dio non è solo Colui che ha fatto meraviglie nel passato, ma Colui che deve venire. Non possiamo incontrarLo, anche nella Chiesa, se non camminando, salendo, facendo la fatica di non dipendere dalle cose, vivendo la sobrietà della mente per individuare i segni della sua presenza là dove si è abbassato, il “bambino in fasce” o il sofferente che grida l’abbandono. L’angelo annunciando ai pastori la nascita del Salvatore dette ai pastori come segno: “Troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” (Lc.2,12).
Dove è per noi la mangiatoia in cui possiamo trovarlo? Nelle vetrine o tra i poveri? Tra gli oggetti di lusso o tra i bambini che muoiono per la nostra incuria? Nel Bambino illuminato da mille lampadine o nel Cristo che urla il suo abbandono sulla croce?
Tempo di Avvento. La prima cosa che dobbiamo accettare è la verità dell’Avvento permanente. Il “prima” di Cristo e il “dopo” Cristo è un confine che segna l’intimo di ciascuno. Nel momento in cui sono preoccupato di me e chiuso al fratello e alla storia sono “prima” di Cristo, anche se ho un bel presepe o un bell’albero di Natale. Sono “dopo” se vivo con Lui e non lo rimando nell’al di là. Ciascuno di noi faccia di questo tempo un tempo in cui ci si interroga sulla propria vita personale, familiare, sulla vita della nostra città così drammaticamente ferita.
All’ingresso della Chiesa è stata posta una frase impegnativa di Benedetto XVI:
“Per incidere su larga scala è necessario “convertire” il modello di sviluppo globale; lo richiedono ormai non solo lo scandalo della fame, ma anche le emergenze ambientali ed energetiche. Tuttavia ogni persona e ogni famiglia può e deve fare qualcosa per alleviare la fame nel mondo adottando uno stile di vita e di consumo compatibile con la salvaguardia del creato e con criteri di giustizia verso chi coltiva la terra in ogni paese”
(Benedetto XVI, dall’Angelus in Piazza s. Pietro, domenica 12 novembre 2006)
Chiediamo al Signore che ci conceda di vivere sempre meno “prima” di Cristo, o “dopo” Cristo nella scontatezza festaiola, ma “con Cristo” nel cuore e nei rapporti, perché Dio ama i singoli se sono immersi nell’umanità, che Egli ha tanto amato da dare per essa il Figlio suo!
All’inizio del tempo liturgico dell’Avvento – la parola latina che significa “venuta” con la preposizione “ad”, perciò venire vicino a noi, a ciascuno e a tutti – domandiamo il dono della gioia che nasce dalla contemplazione di quello che l’amore fedele di Dio, la promessa di bene ricordata da Geremia, stanno germogliando nelle nostre esistenze, forse troppo stanche per credere alla novità: il venire di Dio diventa opera di Dio, il pensiero di pace diventa opera di pace.
Luca parla degli sconvolgimenti cosmici che saranno il segno della conclusione della storia, senza legarli alla distruzione di Gerusalemme, come abbiamo letto nel capitolo13 del vangelo di Marco: segni “nel sole, nella luna e nelle stelle”, perciò una dimensione universale che suscita effetti di paura e di perplessità negli uomini. “Le potenze dei cieli”, cioè quell’esercito di astri, che nella Bibbia rappresentano la potenza del creatore, l’armonia del cosmo, sono scardinate, in un ritorno al caos. Ma questa conclusione tragica e sgomentante della storia è proprio la porta della venuta del Signore, che appare in “potenza e gloria”, le caratteristiche bibliche della divinità. Parlando a persone che conoscevano la pedagogia di Dio, Luca – per evitare che cadessero nella paura – ricorda la “nube”, al singolare, e così evoca la nube dell’Esodo, del Sinai, della tenda dell’Alleanza, della colonna che illuminava il cammino, e poi quella della Trasfigurazione (Lc.9,34), e Ascensione (At.1.11).
La “nube” non nasconde, ma dice la presenza di Dio! Non è un carro che fa da veicolo tra cielo e terra, ma l’affermazione che il Figlio dell’uomo proviene dal mondo di Dio, è avvolto dal divino. Il suo venire permetterà di vederlo (v.27) nella sua verità più piena, quando sarà la fine della vicenda umana individuale e collettiva: non è una venuta punitiva, ma costruttiva, capace di togliere ogni incertezza che accompagnava prima il cammino della fede. È una venuta positiva, nella quale Dio attua pienamente la sua promessa di una nuova fioritura della creazione “nel giudizio e nella giustizia” (Ger,33,15). Da qui l’incoraggiamento ai credenti, che non dovranno sentirsi oppressi dallo spavento, ma restare perseveranti nella libertà dalla paura e nella fiducia che attende perché “la liberazione è vicina”.
Questa fedeltà alla speranza, radicata non più nella precarietà del provvisorio, ma nella verità del definitivo, permetterà la posizione eretta di chi si risolleva e la gioia del capo alzato. La speranza del credente è radicata in Dio: il tempo di Avvento è un invito alla speranza.
“State attenti a voi stessi”, è l’esortazione conclusiva in questo incontro che si rinnova con il vangelo di Luca, lo scrivano dell’amore misericordioso di Dio, della sua tenera premura per l’uomo.
Attenti innanzitutto a noi stessi.
Il tempo liturgico dell’Avvento è invito a vivere nella prospettiva di “quel giorno”, che è “il giorno di Dio”: invito che impegna i credenti a non lasciarsi appesantire dalle tossine della mondanità, indicate con le parole “ubriachezze a affanni della vita”, tossine che possono appannare la lucidità della vita di fede e il vigore della speranza. A chi è impreparato, disattento, “il giorno” che è imminente per tutti perché non prevedibile, cadrà addosso come la rete che si abbatte improvvisamente sugli uccelli.
Luca ricorda alla comunità cristiana che l’attenzione, che egli chiama anche vigilanza, si alimenta e si realizza con la preghiera: “Vegliate in ogni momento pregando”. Ci dice che la preghiera, che è accoglienza della parola di Dio, tiene l’uomo sveglio, pronto a capire e a lasciarsi sorreggere dalla novità della venuta del Signore.
L’atteggiamento di “risollevarsi”, di stare in piedi, è invito alla vita, alla gioia, a non essere ripiegati sul proprio piccolo. È aprirsi alla felicità che può suscitare un vecchio tronco su cui si coglie il segno della vita nell’affacciarsi del germoglio esile, fragile, eppure espressione della vita che va oltre. L’invito alla preghiera non è in funzione della moltiplicazione delle devozioni e delle celebrazioni, ma di quella dimensione contemplativa di attenzione e di amore per tutto quello che è “germoglio” nella durezza della vita dell’umanità: “quando cominceranno ad accadere queste cose”.
Così l’attenzione a noi stessi si trasforma in attenzione a chi soffre.
“Lavoro dal 1996 come oncologo: gli ultimi otto anni li ho dedicati a pazienti che sono fuori da trattamenti specifici, ma destinati solo a terapie di supporto. Lo sforzo è stato quello di aiutarli non a morire, come si suol dire quando si parla di loro, ma piuttosto a vivere…
C’è la necessità di parlare della vita che ti cambia, delle relazioni che cambiano, della solitudine, della tristezza, del rapporto con marito e figli che va riconquistato. E tante altre cose. C’è la necessità di essere vicini alla gente comune.”
(Anna in “Città nuova” 22-XI-2009)
Auguriamoci un Avvento che possa ripetere a quanti incontriamo la novità dell’amore.
Luca, che accompagnerà il cammino di fede della liturgia nell’anno che inizia con il tempo di Avvento – l’anno C del ciclo triennale – insieme a Marco e a Matteo, dedica uno spazio alle vicende che annunciarono e accompagnarono la fine del tempio e di Gerusalemme, “assediata, devastata, calpestata”, e saranno segno della conclusione del tempo, in dimensione universale, che coinciderà con il ritorno del Signore. È la certezza di fede che ha la radice nell’avvenimento dell’Ascensione, quando al piccolo gruppo dei primi seguaci fu rivolta la parola degli angeli: “Quel Gesù che di mezzo a voi è stato assunto al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (Atti.1,11).
L’annuncio non è la fine della vita, ma il ritorno del Signore, così che l’ascensione e il ritorno sono l’inizio e la conclusione della Chiesa. La nube non è un veicolo tra il cielo e la terra, ma il segno che “quel Gesù” viene dal mondo di Dio e tornando avvolge l’umanità nel divino e rende visibile la sua signoria su ogni realtà. Perciò i segni cosmici, per i credenti, non debbono essere motivo di spavento e scoraggiamento, ma di speranza perché annunciano la “liberazione” (è il vocabolo che Luca preferisce) vicina. I credenti sono incoraggiati a perseverare nel tempo della Chiesa, a smettere l’atteggiamento di chi sta curvo sotto il peso della prova: “Alzate il capo perché la vostra liberazione è vicina”. Sollevare la testa è segno e testimonianza di speranza.
Un tempo, quello di Avvento, che perciò è tempo di fiducia e di gioia, come il tempo della gravidanza per una mamma, come il tempo dell’incontro per la sposa. Annunciando il proprio ritorno, Gesù afferma la venuta in mezzo agli uomini del Dio dei Padri, dei patriarchi, il Dio di Mosè e dei profeti. Le caratteristiche del suo annuncio sono nuove rispetto alla tradizione precedente che, fino a Giovanni Battista, affermava “l’ira imminente” di Dio giudice. Per Gesù il ritorno è il regno definitivo, qualcosa di non immaginabile per l’uomo, l’intervento misericordioso di Dio che attua il convito di tutti i popoli, la festa di nozze con l‘umanità, intesa collettivamente e individualmente. L’Avvento è notizia di gioia, di intima nuzialità tra Dio e l’uomo. Il libro da leggere e meditare, per la sete mai appagata dell’uomo, è il “Cantico dei Cantici”.
Ed è ancora una novità in Gesù: il suo non è più un tempo al futuro. È invece un tempo attuale, perché “contemporaneo” al suo essere presente “qui ed ora”. Gesù – dice Origene nel secondo secolo dell’era cristiana – è il Regno in persona. Perciò “il Regno è compiuto, il Regno di Dio sta venendo” (Mc.1,15). Solo scrutando il volto di Lui, ascoltando le sue parole, guardando il suo stile di vita e di solidarietà con gli uomini, si può capire un po’ chi è il Dio che sta venendo.
Da qui, infine, una terza caratteristica
Gesù introduce nel cuore degli uomini una tensione “dinamica” tra l’attesa del futuro e l’attuazione nel presente di quello che Egli ha iniziato e affidato ai discepoli, nonostante le difficoltà del metterlo in pratica. Egli si fa nostro prossimo nella speranza che dona energia e luce nella fatica della fede. Fede è testimoniare. Questo tempo di Avvento invita a guardare al centro della persona di Gesù, là dov’è la sorgente della sua speranza, Dio Padre, a cui è intimamente legato e da cui non è mai deluso, quel Padre che chiama, nella preghiera personale e nel dialogo umano, “Abbà”, che considera fonte,
“Alzate il capo” Gesù ci dice perché non ci lasciamo sconfiggere dalle tante forme di dispersione che dilaniano le nostre esistenze. “Alzate il capo”, come per dire: “Uscite dalle schiavitù che vi incatenano, guardate con me al Padre: è là che vi voglio portare”.
Agostino, pieno di stupore, dice:
“Generati da Dio!
Come avvenne che nascessero da Dio costoro che sono stati generati dagli uomini?
Come avvenne che Egli abitasse in mezzo a noi?
Grande è lo scambio! Egli si è fatto carne, costoro Spirito.
Cos’è mai questo? Che degnazione, fratelli miei!
Elevate lo spirito a sperare e a ricevere beni migliori.
Per voi il Verbo si fece carne, per voi chi era Figlio di Dio si fece Figlio dell’uomo,
affinché voi che eravate figli degli uomini foste generati figli di Dio.
Egli chi era? Che diventò? Che eravate voi? Quali siete stai fatti?
Egli era Figlio di Dio e si fece Figlio dell’uomo. Voi eravate i figli degli uomini
e siete stati fatti figli di Dio.
E così è il Mediatore, è nel mezzo.
Non venne tra noi in modo da abbandonare il Padre.
Si allontanò da noi e non ci abbandonò. Tornerà da noi e non ci lascerà.”
(Discorso 121,5)
Maria sta al centro del venire di Gesù nella nostra povera storia e nel nostro futuro. È la madre del Figlio dell’uomo e degli uomini figli di Dio. Gravida del Cristo storico e del Cristo mistico.
Chiediamole di portarci nella sua gravidanza, trasformando i giorni dei nostri fallimenti e del nostro travaglio in giorni suoi, della sua maternità che dona il Figlio dell’uomo.