II DOMENICA DI AVVENTO – Anno C
(Bar.5,1-9; Sal.125; Fil 1,4-6.8-11; Lc.3,1-6)
E’ la seconda domenica di Avvento. Per accogliere il Signore che viene, vorrei trarre dalla liturgia tre spunti di riflessione.
Primo punto: con Giovanni Battista un profeta è presente nella storia. Profeta non è chi predice il futuro, se non per esplicito ordine del Signore. Non è un annunciatore dei castighi divini, anche se il Signore gli chiede di fustigare i suoi contemporanei. Profeta è colui che in ogni epoca storica manifesta agli uomini l’agire di Dio, così come egli gli ha parlato. Giovanni è profeta perché la Parola divina è scesa su di lui in un preciso momento storico. Luca, da uomo colto – era medico e buon conoscitore del greco – ci indica con grande precisione la situazione politica di quel momento: ci trovavamo circa nell’anno 28 o 29 della nostra era. Il messaggio che Giovanni Battista è chiamato ad annunciare viene dall’alto: il Verbo di Dio si è fatto carne, come dirà l’Evangelista Giovanni. La Parola eterna ed inconoscibile diventa per noi conoscenza attraverso la parola umana. Dio discende dall’infinito per farsi pellegrino all’interno della nostra storia. Il Battista vive nell’obbedienza a questa Parola e ci invita alla penitenza, perché chi lo ascolta diventi disponibile all’azione di Dio, che è presente qui, nella persona di Gesù, che ciascuno di noi è chiamato ad accogliere. Un tempo i contemporanei di Giovanni, oggi ciascuno di noi.
Secondo punto: questa accoglienza richiede una preparazione interiore, necessaria perché riusciamo ad incontrarlo. E’ questa interiorità spirituale che tutta la liturgia di oggi ci propone: è un invito all’attesa e alla ricerca, alla condivisione sincera di ogni esperienza umana, tesa alla ricerca di Dio, esperienza che a volte può anche essere dolorosa. L’incontro con Gesù non è mai un dato scontato, un risultato raggiunto una volta per tutte. La settimana scorsa ho vissuto giorni molto intensi predicando gli Esercizi Spirituali alle Suore di clausura di un monastero vicino. Comunico la mia esperienza perché può essere di aiuto: anche per chi vive in clausura nella preghiera, Dio deve ancora essere atteso ed accolto. Anselmo di Aosta, vescovo e dottore della Chiesa, vissuto nell’XI secolo, così esprimeva la sua sete di Dio: Signore, io sono stato creato per vederti e non riesco ancora a vederti. Sono stato creato per cercarti e non ti trovo. Insegnami a cercarti: che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti ami tanto da trovarti e trovandoti ti ami. E’ la ricerca che Paolo, con familiarità, indica ai Filippesi: “Prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, perché possiate distinguere sempre il meglio…”. Il discernimento è la virtù che ci fa cogliere, nella concretezza delle singole situazioni, il modo in cui orientarci per operare secondo il disegno di Dio. La giustizia, è frutto donatoci da Gesù e richiede vigilanza sulla condotta, fedeltà al Signore, radicata sulla profondità della vita interiore. Quanto maggiore è questa interiorità, tanto più cresce il discernimento.
Veniamo ora al terzo punto, l’attualizzazione. Nella liturgia, oggi, viene sottolineato il deserto, luogo in cui Giovanni si trovava quando scese su di lui la Parola di Dio. Il deserto sta ad indicare il silenzio del cuore, la ricerca dell’essenziale: esso è invito alla responsabilità personale nell’accoglienza del Signore, accoglienza che non è possibile nei palazzi del potere, del potere civile, ma anche di quello religioso. La Parola ha la possibilità di entrare in quei palazzi, ma non vi può essere accolta, perché essa ha bisogno del silenzio per essere percepita. Dove c’è concitazione per le decisioni che devono essere prese, il silenzio è impossibile e la Parola, anche se scende, non trova la possibilità di essere accolta.
Ci domandiamo allora: come crescere nel discernimento, cui ci invita Paolo? Come fare per favorire la relazione positiva e feconda fra il sentire cristiano che nasce dalla Parola e il nostro vivere concreto, senza lasciarci sopraffare dagli usi e dai costumi di una società dove sembra che non vi sia più spazio per Dio, una società che molti considerano in decadenza? La concezione cristiana della vita sembra offuscarsi e il credente deve sforzarsi per crescere nella visione di Dio: essa sola gli permette di scorgere come vivere la sua giustizia nella concretezza della storia, attraverso il discernimento. L’Avvento è il tempo che ci chiama a questa ricerca nella riflessione, nell’umiltà della mente e della parola. Domandiamoci fin dove nella nostra vita personale e familiare, nel nostro atteggiamento nei confronti della realtà economica e politica, nell’adesione a ideologie e corporativismi litigiosi, ci andiamo omologando con una società, così lontana dalle esigenze del Vangelo. Scopriamo se ci impegniamo a dare il nostro contributo ai segnali positivi presenti anche fra i non cristiani, che lavorano nel volontariato, per l’ecumenismo, per la pace. Dove siamo collocati? Per poterlo discernere sono indispensabili il silenzio e la preghiera: solo così potremo sfuggire alla trappola di un Natale consumistico. Il Signore viene a noi non nel palazzo, non nelle suggestioni del mercato, ma nel deserto: solo lì possiamo accoglierlo, sceglierlo, amarlo.
Domandiamo allo Spirito Santo di dischiuderci lo spazio della vita interiore, della preghiera, di aprirci all’incontro con il Signore, alla crescita nel discernimento per “distinguere sempre il meglio” e andare incontro ai bisogni dell’umanità.
“Sorgi, o Gerusalemme.. vedi i tuoi figli riuniti da occidente ad oriente, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio”
Queste parole danno quasi il titolo alla liturgia odierna.
Baruc è il segretario di Geremia durante la deportazione in Babilonia; il suo scritto non è presente nella Bibbia ebraica, ma in quella greca e nella “vulgata”, e la Chiesa lo considera “canonico”, cioè libro ispirato dal Signore. Parlando alla comunità prostrata dall’esilio, Baruc ravviva la speranza nella promessa del Signore, sottolinea la necessità dell’accoglienza della Parola, se vuole sperimentare concretamente il rinnovamento del popolo nella fedeltà a Dio.
E’ lo stesso messaggio che Luca mostra, con la puntigliosità dello studioso di storia, nell’esperienza di Giovanni Battista. Presenta una situazione bene identificata geograficamente e politicamente, nomina con precisione i protagonisti in senso umano, ma oltrepassa i confini della scienza storiografica per inserire nel suo racconto la Parola come soggetto di quello che va dicendo:
“La Parola di Dio si fece udire a Giovanni”
L’iniziativa di quello che accade, la sua efficacia, tutto nasce da un inizio altro dalle cause ordinarie della storiografia. Tutto è frutto dalla Parola.
Giovanni appare sulla scena nell’anno 28/29 (il conteggio di Luca si discosta di qualche anno da quello corrente). Egli si muove come i grandi inviati di Dio nel passato – nei secoli del grande profetismo – che avevano ricevuto un’investitura diretta e solenne: pensiamo alla vocazione di Isaia, nel capitolo 6, o a quella di Geremia nel capitolo 1: sono persone che non “inventano” la propria vita, ma obbediscono solo alla Parola. Non è un annunciatore “umanista” della sapienza o un visionario apocalittico, nemmeno un nostalgico della tradizione o del rigorismo morale. E’uno che obbedisce alla Parola che si è fatta udire nel suo io profondo e diventa araldo, testimone, di quanto ha udito. Luca lo rappresenta in questo compito con uno sguardo che va lontano, di cui dobbiamo essere grati. In lui il progetto di Dio si avvera.
Marco e Matteo citano il passo, tratto dl capitolo 40 di Isaia, fino alla frase: “raddrizzate i suoi sentieri”. Luca va avanti nella citazione e aggiunge: “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!”. Questo è già l’annuncio di un vangelo universale, che, nell’intenzione di Dio, è per ogni uomo. C’è dunque un dono che è “per tutti”, ma contemporaneamente l’accento è messo sulla libertà dell’accoglienza. Il “per tutti” è anche nella formula della consacrazione eucaristica, a cui sarebbe blasfemo sottrarre qualcuno in nome di categorie umane, perché il Vangelo non è per un solo popolo, ma per l’umanità intera. “Ogni uomo vedrà”, sta a dire che ogni uomo, sia all’interno della Chiesa che nella solitudine della propria coscienza, dovrà porsi con responsabilità davanti alle esigenze del Vangelo e perciò dovrà ascoltarle e meditarle con attenzione: qui dovrà accentrarsi la nostra preparazione al Natale, che altrimenti rischia di diventare solo una celebrazione emotiva.
Pochi anni dopo l’inizio della Chiesa, Paolo scriverà ai cristiani di Roma, che “fides ex auditu”(Rom.10,17), cioè “la fede nasce dall’ascolto. E, fin dai primi tempi, il credente sa che la sua possibilità di essere in comunione con Dio, di parlare con Lui che non può vedere sulla terra, dipende dall’ascolto profondo di Lui, in quel sacramento perenne della presenza di Dio nella nostra vita, che è la Sacra Scrittura – nella quale è detto “in molti modi” (Eb.1,1) – e in quello che si va svolgendo nella storia, perciò nei segni dei tempi.
L’austerità di Giovanni Battista nel deserto è significativa e stimolante. Dice che non si può ascoltare la Parola se non c’è un’uscita concreta dal frastuono, se non c’è il discernimento faticoso tra la Parola e le parole che ci inseguono e a volte ci dominano, se non c‘è l’adesione sincera della propria volontà al contenuto della Parola, se non c’è la ricerca sincera della volontà di Dio negli eventi. Ho letto tra le espressioni di alcuni ragazzi dell’istituto penale minorile di Nisida: “Quando muoio vado in paradiso, perché all’inferno già ci sono stato”. Che ci dice la Parola nei confronti di questi ragazzi?
Il cammino spirituale esige di fare spazio al Tu che ha parlato in cuore. Nel Quarto Vangelo Giovanni Battista lo testimonia in modo straordinario:
“Egli deve crescere ed io diminuire” (Gv.3,30)
E qui si scopre che chi ascolta e custodisce la Parola, diventa capace di ascoltare e custodire gli altri, ospitandoli dentro di sé come presenza di Dio. Così la Parola passa nell’altro, e, come chi la riceve da Dio può rivolgersi a Lui nel Tu del Padre Nostro, così chi la riceve sentendosi amato nel cuore di chi la pronuncia, si ritrova libero di accoglierla e condividerla nella reciprocità di figli uniti nella Parola del Padre. E’ la realtà vista da Baruc:
“Figli riuniti … alla parola del Santo”
I nostri organi di informazione sono “occupati” da molte parole che suscitano effetti e reazioni contrastanti: c’è invece un grande bisogno di fare silenzio sulle questioni profonde, che toccano l’uomo e suscitano tanta sofferenza nei fratelli. L’ascolto di Dio – con le sue esigenze di silenzio, di attenzione, di sforzo per custodire quello che si è ascoltato, di decentramento da sé per essere centrati sull’altro – diventa possibilità di svelare in se stessi una presenza intima, che fa della persona umana un luogo della presenza di Dio.
La Parola, come la persona di Giovanni, può essere accolta o rifiutata. Ma chi vede Giovanni già intravede colui che annuncia. Così chi vede il cristiano che ascolta e vive la Parola, già vede il Signore.
E questo convince più di tante discussioni nei salotti e sulla stampa.
Con un’introduzione che gli è propria, Luca pone in unità la storia dell’intervento di Dio per gli uomini con la storia romana e palestinese, come per situare i fatti in un tempo che, pur appartenendo ormai al passato, tuttavia non è un tempo qualsiasi. Dio da compimento alle sue promesse, interviene nella storia dell’umanità. Da questo momento prenderà l’avvio un altro computo degli anni.
“La parola di Dio venne su Giovanni, nel deserto”.
E’ attraverso una vicenda personale, quella di Giovanni, che Dio si “fa vicino” all’umanità. C’è storia di salvezza perché vi sono donne e uomini che, sotto l’azione della Parola di Dio, provocano delle situazioni impensabili senza di essa e cambiano la storia. Nel deserto, come aveva previsto Isaia. Così nel Medio Evo Benedetto, poi Francesco, poi, all’inizio della modernità, Vincenzo dei Paoli.
Il deserto è il luogo della vocazione di Giovanni, è lì che egli è cresciuto nell’unione con Dio prima di essere inviato. Da lì parte per l’invito alla conversione, percorrendo ripetutamente la regione dove scorre il Giordano. Giovanni annuncia in maniera nuova il giorno del Signore, il giorno che porterà lo Spirito promesso dai profeti per la fine dei tempi, parlando di una sua imminenza, di un tempo di compimento, e pone un segno compiendo un gesto sensibile di salvezza da parte di Dio, quello del battesimo, gesto al di fuori della consuetudine rituale degli ebrei, attuando così quello che Ezechiele aveva detto: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati”
E prevede come imminente la seconda parte: “porrò il mio spirito dentro di voi” (Ez.36,25-27)
Luca racconterà poi quello che Giovanni non sa, e cioè che lo Spirito verrà donato a Pentecoste – il tempo pieno dell’incontro di Dio con l’uomo (Atti 1,1.11), e continuerà ad essere donato ai credenti nella comunione della Chiesa.
Dal deserto la voce di Giovanni annuncia che “ogni carne vedrà la salvezza di Dio” e che “il tempo è compiuto” (Mc.1,15), è ora. Il Signore nasce nella storia ogni volta che un uomo accoglie e custodisce la Parola, come Maria che è maestra di accoglienza e di docile attenzione.
La Chiesa non si stanca di ascoltare ogni anno la voce di quelli che hanno vissuto e suscitato l’attesa e tenuto sveglio il desiderio del dono di Dio nella venuta di Gesù. E Giovanni è il profeta, l’annunciatore del compimento dell’attesa, colui che mostra alla comunità Gesù presente e le indica come accoglierlo.
Luca mostra il desiderio che lo anima nel suo racconto dettagliato. Colloca storicamente la discesa della Parola, non per amore dell’esattezza materiale dei particolari, ma per dire che l’incarnazione ha le sue radici nell’eternità del cuore di Dio, che Isaia aveva contemplato in visione (Is.6,8); è la grazia dell’alleanza con gli uomini, definitiva, perché proposta e vissuta non più attraverso intermediari, ma in prima persona. E’ il Dio vicino nel tempo a chi vive nel tempo, perciò nella fatica. E’ il suo “Eccomi!” (Is.58,9) agli uomini, che sono ritmati dalla cronologia della precarietà e della provvisorietà.
Già la creazione è lo stupefacente comunicarsi di Dio nell’assoggettamento alle regole dello sviluppo graduale, dell’evoluzione di ogni creatura imperfetta; nel ritirarsi e farsi piccolo nella pazienza – fino a diventare piccolo feto nel seno di Maria, a dover imparare, Lui che è la Sapienza, ogni cosa dagli uomini. Perché si allarghino con il tempo gli spazi della comprensione e dell’accoglienza, egli fa dell’umiltà il segno qualificate del suo venire: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap.3,20). Domandiamoci nella preghiera quale è la nostra attenzione nell’ascoltare i passi del Signore nelle nostre vite.
Ora la Parola si fa vicina, accade dentro la persona, dentro gli spazi ordinari delle vicende umane, spazi piccoli e spesso meschini. Forse l’immagine del deserto è stimolante per comprendere l’urgenza dell’accoglienza di questo dono indicibile che è la venuta del Signore nel cuore delle singole persone. Il deserto non è tanto un luogo, ma una situazione di esistenza in cui l’insicurezza apre o prepara alla disponibilità verso chi sta alla porta, perché possa pronunciare il suo “eccomi”. Sì, “eccomi” a te. Ti sto aspettando dall’eternità nel cuore del Padre mio. Per dirti che è anche Padre tuo. Per questo la fede nei poveri e nei senza alcun tipo di appoggio appare sovente più ferma e fiduciosa che in quanti presumiamo di avere sicurezze e punti fermi.
Giovanni Battista accoglie la Parola e la dona, senza pretendere di dominarla e di condizionarla, ma facendone il soggetto del proprio vivere.
Facciamo nostro l’augurio di Paolo a Filippesi:
“Che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento,
perché possiate distinguere ciò che è meglio
ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo”
Domandiamo la grazia di essere disponibili a quanto lo Spirito ci dice sul meglio per la nostra vita.
“Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio”
La comunità cristiana che medita e prega, non si stanca di riascoltare la voce di quanti sono stati annunciatori della storia di amore che la riguarda ed hanno tenuta accesa la speranza del popolo credente nel cuore di donne e di uomini che singolarmente sono vissuti in attesa di Qualcuno o di Qualcosa. Attesa ed umiltà accompagnano la vicenda umana, e i momenti di crisi personale e culturale, mentre da un lato accrescono drammaticamente la consapevolezza della negatività e della distanza dell’uomo da Dio, dall’altro acuiscono il desiderio di quel Qualcuno o Qualcosa. Ecco perché i profeti sono attesi e seguiti – anche nel mondo laico dove sempre più frequentemente si guarda con fiducia a chi ha “carisma” perché annuncia qualcosa che va oltre la sola competenza e le istituzioni che anima.
Giovanni Battista è un profeta vero. La liturgia dell’Avvento lo propone come colui che dispone all’accoglienza di Gesù già presente in mezzo al popolo ebreo e alla decisione di seguirlo, perché in lui il tempo si è compiuto nel suo essere pieno di Dio, portatore di Lui, e perciò l’attesa è finita.
“La Parola di Dio venne (‘avvenne’, ‘si fece vicina’) su Giovanni nel deserto”.
Non è il frutto dell’elaborazione del pensiero umano, ma l’esperienza della iniziativa di una “Alterità”, che avviene, viene vicino nella povertà più piena, di solitudine e di aridità, simboleggiate dal deserto.
Un’esperienza, perciò un fatto che accade nella storia, e Luca lo annota collocandola nel contesto dell’Impero e della storia di Palestina. Ci dice che Augusto era morto quattordici anni dopo la nascita di Gesù e gli era succeduto Tiberio, che regnava da quindici anni quando avvennero i fatti che espone, e Gesù aveva circa trent’anni. Così l’opera di salvezza, l’intervento di Dio nella storia, è “datata”. Il suo è un farsi vicino storico. Ed è un farsi vicino da assumere in sé la piccolezza degli attimi, dei mesi e degli anni del vivere umano, per entrare in essi ed essere misurato secondo la cronologia umana: “Gesù, quando cominciò il suo ministero, aveva circa trent’anni” (Lc.3,23). E’ il primo aspetto del mistero dell’incarnazione, quel “rimpicciolirsi” di Dio che induce allo stupore, come abbiamo ascoltato da Agostino, domenica scorsa, quando ci invitava a contemplare il suo farsi Figlio dell’uomo da Figlio di Dio qual era, per fare di noi figli di Dio da figli dell’umanità. La Parola entra nei momenti del nostro tempo, negli spazi angusti degli accordi umani, frutti delle ambizioni e delle convenienze politiche.
Non dimentichiamo, quando tra qualche giorno ci sarà dato di guardare per un momento il presepe forse considerandolo come qualcosa di folcloristico, che all’origine non c’è un gioco per bambini, ma lo stupore della contemplazione di Francesco d’Assisi che dell’incarnazione è testimone proprio nello stupore. E così per “Quanno nascette ninno” di Alfonso dei Liguori.
Giovanni non ha parole sue da proporre ma la Parola di Dio che è “il Verbo uscito dal silenzio e in lui chi lo ha mandato si è compiaciuto profondamente” (Ignazio di Antiochia, lettera ai Magnesii,8). Perciò gli viene domandato il “deserto”, il distacco e il farsi povero del chiuso degli eventi e più ancora del cuore. E’ questo ambiente interiore che lascia libero Dio in lui di farsi voce umana, parola dicibile e comprensibile del silenzio eterno ed ineffabile. La Parola diventa in lui soggetto del pensiero, delle decisioni, di quanto deve dire, e Giovanni diventa voce di Dio per l’umanità.
E’ il compito profetico del credente, così felicemente riscoperto e riproposto dal Concilio Vaticano II. Quando il dono della fede ha portato a Gesù, compimento del tempo, allora – come Giovanni – occorre assumere il servizio profetico e lasciare il deserto e percorrere le vie dell’umanità perché non siano “tortuose e impervie” ma preparate all’incontro con il Signore. Questo non sarà frutto dell’accordo dei potenti del tempo. ma della cooperazione con quanti la Parola suggerisce a chi non appare nei libri di storia, ma è figlio di Dio. Giovanni ascia il deserto, cammina, annuncia, battezza. E’ colui che prepara. Perciò la Chiesa non lo perde di vista.
La liturgia di Avvento invita ad apprezzare la preziosità della voce dei profeti, a riconoscerla e a custodirla per discernere il bene dell’uomo di oggi. I destinatari del Vangelo, ci dice Luca, sono chiamati a fare proprio il compito di Giovanni, a prepararsi e a preparare, a raddrizzarsi e a raddrizzare. Giovanni è profeta anche con noi, perché noi lo siamo con lui.
Il rendimento di grazie di Paolo per la ”cooperazione al Vangelo“ dei cristiani della chiesa di Filippi, dice quando e come il servizio profetico sia dono di fede e responsabilità di amore per l’umanità chiamata all’incontro con il Signore Gesù, dall’inizio al compimento, “fino al giorno di Cristo Gesù.
Cooperatori del Vangelo significa diventare in se stessi presenza di Dio, che illumina la mente e disseta l’umanità, rendendola adatta ad essere dimora di pace per ogni suo figlio. E’ detto infatti: “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.