III DOMENICA DI AVVENTO – Anno C
(Sof.3.14-18; Is. 12; Fil.4.4-7; Lc.3.10-18)
Il tempo si fa breve, non perché mancano pochi giorni al Natale e l’Avvento ci sembra breve, ma perché dobbiamo aprire il nostro cuore alla venuta del Signore, che è qui e aspetta che gli apriamo le porte del nostro cuore.
Domenica scorsa abbiamo visto come la Parola sia discesa dall’alto su Giovanni: egli la ha accolta in sottomissione ed umiltà ed essa si moltiplica sulla terra: in molti accorrono a lui per domandargli quello che da sempre si domanda il cuore inquieto dell’uomo: “Che dobbiamo fare?”. Le folle che accorrono da Giovanni rappresentano l’umanità di tutti noi: sono i penitenti, che hanno chiesto il battesimo, i pubblicani, i soldati. Giovanni non dà loro una risposta che implichi la fede, un rapporto con Dio, un atto di adorazione a lui. La sua risposta è solo l’invito a cambiare il proprio atteggiamento con il prossimo lottando l’ambiguità del possesso dei beni materiali, fonte di ingiustizia, di separazione, di violenza. Le sue parole sono rivolte a tre categorie di persone, ma riguardano tutti noi, perché sono un invito alla condivisione, alla giustizia, alla non violenza. Il criterio di appartenenza al nuovo popolo che Gesù inaugura è rifiuto dell’oppressione e dell’ingiustizia, è invito alla condivisione. Come nel Vaticano II dirà la “Lumen Gentium”, la Chiesa ha come unica legge e fondamento l’amore scambievole. E’ qui la legge di tutta la Scrittura: cinque secoli prima di Cristo Ezechiele al capitolo 18 diceva: “Se uno è giusto …non opprime alcuno, …divide il pane con l’affamato e copre di vesti l’ignudo, non presta ad usura e non esige interesse…” ed Isaia al capitolo 58 lancia un’invettiva contro l’ipocrisia religiosa: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi, e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, i senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” E’ un nuovo modo di valutare i rapporti con il Signore, ripensare i valori della vita. Giovanni mette in guardia dalla ricchezza che indurisce il cuore nei confronti di chi non possiede. Porta di ingresso al Vangelo sono condivisione, giustizia, sobrietà. Questo di Giovanni è un invito di grande attualità!
I Padri della Chiesa hanno tutti parlato della priorità dell’amore. Agostino sostiene che indubbiamente il primo comandamento ha un valore assoluto, ma il secondo ha il primato della concretezza e rende possibile il culto a Dio nella verità. Devo dire in confidenza che, nel mio cammino di riflessione sulla regola monastica di Agostino, che è la regola dell’ordine cui appartengo, sono stato colpito dal fatto che, anche per le stesse suore di clausura, che vivono fuori dal mondo proprio perché hanno privilegiato l’amore per Dio, egli ha dedicato il primo capitolo tutto all’amore fraterno e solo il secondo all’amore per Dio. Il testo che riguarda la preghiera è molto più scarno di quello che riguarda l’amore per il prossimo.
La domanda: “Che dobbiamo fare per accogliere il Signore che viene?” ha una portata teologica, ma Giovanni risponde in maniera antropologica: “Devi donare te stesso ai fratelli”. Il passo del profeta Sofonia, che abbiamo ascoltato oggi, è un invito alla gioia per la presenza del Signore tra noi, ma essa è reale solo se è accompagnata dalla giustizia, dalla giustizia degli uomini. Quando il tessuto sociale si sana in una realtà di comunione fraterna si ripristina l’Eden e Dio abita tra noi: “Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente”. Non solo il popolo, ma Dio stesso “si rallegrerà… come nei giorni di festa”! In una realtà di amore reciproco è il Signore stesso che esulta e canta. Avviene così che la relazione tra gli uomini, che è fatto antropologico, diviene realtà teologica! Paolo, nella lettera ai Romani, vede la convivenza di amore tra fratelli come un profumo gradito a Dio. Il Signore abita in questa realtà di amore e ne gioisce.
In questo Natale pensiamo alla nostra città, che è fiera dei suoi bellissimi presepi, ma non riconosce la realtà della venuta del Signore, perché vive nella paura, nel sospetto, nella separatezza, che nasce dalla diffidenza: sono tutte tossine che impediscono la gioia che nasce in noi dalla presenza vera del Signore nella storia del mondo. Giovanni Battista interpella oggi ciascuno di noi, con le sue parole lo Spirito ci chiede di diventare dono per il fratello, nuova realtà di relazione e di amore, come il Bambino che viene al mondo attraverso l’accoglienza di Maria.
Domandiamo al Signore che ci renda docili al suo invito!
Essere cristiani significa avere l’amore a norma di vita. E’ il messaggio della liturgia in questo tempo che rinnova l’invito all’accoglienza di Gesù Cristo nei cuori dei singoli e nel vivere sociale. Le parole di Giovanni che, domenica scorsa, avevano il carattere globale della profezia, “convertitevi”, ora sono mirate ad entrare nel concreto delle diverse condizioni di vita. Messaggio semplicissimo e difficilissimo, su cui vogliamo sostare in questo momento di riflessione.
Semplicissimo, al punto che viene da domandarsi perché, se l’amore basta, vi sia bisogno di una fede esigente nel proporre delle verità da credere e delle conseguenze di tipo etico, perché sia necessaria una dottrina elaborata e non la sola esortazione al servizio fraterno.
Accanto a questa semplicità liberante, il primato dell’amore è anche difficilissimo, è motivo di angustia. Lo abbiamo provato tante volte nella vita: l’interpellanza continua dei bisogni, che appaiono sempre nuovi e sempre più drammatici, ci coglie molto spesso disattenti, superficiali, condizionati dal pregiudizio. Il desiderio di vivere l’amore si scontra con la nostra stanchezza, con la nostra diffidenza: non abbiamo lo sguardo buono in grado di condividere la sofferenza del fratello, non siamo perciò pronti ad amare. E’ un’ambiguità che sperimento anche io, in prima persona: quando ci sforziamo di rispondere, il nostro amore – con frequenza – è venato di egoismo e di autocompiacimento, con il rischio costante di trattare gli altri solo se in relazione con il nostro io. Se siamo sinceri nella coscienza, la difficoltà di amare è realmente una fonte di angoscia nello scoprirci inadeguati.
La tradizione cristiana ci dice che alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, ma quante volte la nostra vita non è vissuta nell’amore, secondo l’esemplarità di Dio che ci dona il Figlio perché impariamo ad amare! Qui comprendiamo quanto la fede sia di aiuto, e lo comprendiamo nella consapevolezza grata di tutto l’amore alimentato nei cuori e donato dalle mani di tanti e tante che non si riconoscono nella
professione della fede cristiana. E’ un oceano di amore che percorre il mondo e siamo grati a Dio per la dignità altissima di questi nostri fratelli.
Ma la fede aiuta per la certezza che la nostra inadeguatezza è supplita dalla sovrabbondanza dell’amore di Gesù Cristo. Il Figlio che diventa uomo, ci porta al di là dei nostri limiti, ci permette di superarli e di attingere alla sua forza. La fede è un più di amore, il più di Cristo, che supplisce il nostro poco. E l’esperienza dell’amore di Dio che ci accompagna mentre siamo limitati, diventa sorgente di amore senza egoismi, senza attesa di ricompense, e atteggiamenti di rivendicazione. Ci rende “inermi”, senza armi.
Una vita spirituale matura comprende che tutto quello che la fede ci propone di vivere è cammino verso quell’amore che in Cristo ha la sua espressione piena. Come dice Paolo nella lettera ai Corinzi, “la carità non avrà mai fine” (1Cor.13,8). Perciò il credente alimenta nella fede la sua relazione personale con Cristo e, ponendosi al fianco dei fratelli come testimone umile del suo amore, li aiuta ad essere partecipi di Lui, nell’affabilità della condivisione, con gioia sincera. La fede, infatti, che è presente nell’amore di chi aderisce al Vangelo, lo è anche se non si è esplicitamente consapevoli di Cristo, ma se ne attua l’insegnamento. Per cui chi ama è cristiano. La vita spirituale è vita di intima relazione di amicizia con Gesù, che ci permette di essere uno accanto all’altro in una dimensione pacificata che non è irenismo, ma frutto della lotta. La seconda lettura ce ne indica la modalità: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”. Questo termine, “affabilità” è per noi come un regalo di Natale, in un momento in cui le parole appaiono spesso concitate. Essere “affabili” nel tram, nei negozi, accanto agli sportelli. Affabilità è disarmo nei confronti dell’altro, è consapevolezza della luce del Vangelo nella quotidianità: ci dice Giovanni Battista: sei soldato, casalinga, impiegato … fallo con affabilità.
La liturgia di Avvento invita ad accogliere le parole di Giovanni in risposta alla domanda tipica di chi attende: “che cosa dobbiamo fare?”, ad accoglierle come discepoli del Signore già venuto e che sempre deve venire: perciò alla luce del Vangelo. Queste parole aprono prospettive che la logica abituale non tiene in conto. Paolo VI diceva che la giustizia è la misura minima dell’amore: dobbiamo esigere la giustizia da noi e dagli altri. I rapporti sociali sani devono essere giusti: una società ingiusta è frutto di atteggiamenti ingiusti dei singoli e questo deve metterci in crisi. Ma questa è la misura minima. Giovanni ci dice che Cristo viene lì dove finisce il fare calcoli comincia il semplice voler bene senza fare calcoli. Le sue parole spingono al superamento del criterio di giustizia. Non potremmo dire a Dio “Padre”, se non ci fosse stato donato gratuitamente.
L’essere semplicemente giusto non basta al cristiano, dal momento che l’esperienza di fede rende consapevoli di essere stati prevenuti dall’Amore che non guarda i limiti del destinatario ed è gratuito. Questa esperienza induce ad una “sovrabbondanza di donazione”, che non esige dall’altro, proprio perché sa di non essere capace di una tale perfezione di giustizia che lo autorizzi ad esigere. Perciò il mantello da dare a chi ti chiede la tunica, e l’altro miglio da percorrere con chi ti ha chiesto di farne con lui uno, così il perdonare settanta volte sette, che il discorso della montagna indica come misura dei discepoli del Signore Gesù.
Cristo è presente dove il criterio della sola giustizia è superato.
Questa è l’etica che Giovanni annuncia perché il Cristo che viene possa trovare accoglienza. Domandiamo la grazia di essere persone che hanno l’amore gratuito come norma di vita.
– Fare “frutti degni della conversione” è la richiesta della predicazione di Giovanni, che suscita interrogativi per il tono austero e di urgenza. Perciò la domanda che traspare sgomento: “che cosa dobbiamo fare?”. E’ anche il nostro interrogativo di fronte all’incalzare della negatività. Lui risponde con tre esempi riconducibili a tre diverse condizioni di vita, che perciò potrebbero essere accresciuti. Luca li riferisce, assumendoli dalla tradizione orale a cui assicura di essere stato attento, li considera attuali e perciò destinati non solo alla “folla” che ascolta Giovanni, ma anche a quella che, sempre più folta, incontra la Chiesa.
“Folla” equivale a “tutti”, perché la Parola ha destino universale. Tutti devono sapere che la venuta di Cristo include una morale, genera un comportamento. Devono saperlo gli ascoltatori di Giovanni. Dobbiamo saperlo noi che, in Avvento, ripercorriamo con la memoria l’attesa antica perché vi sia sintonia tra evento e azioni della vita. Questa sintonia è in Giovanni, come qualcosa che già lo lega a Cristo, l’amore del prossimo: l’assistenza a chi ha fatto un grande viaggio per arrivare al Giordano, nel segno della tunica e di qualche cibo; il non profittare del proprio lavoro per arricchirsi ingiustamente; il non estorcere sottomissione e ordine sociale con la violenza. La conversione non esige atti fuori dalla vita ordinaria dell’uomo: Giovanni non chiede penitenze, riti particolari, non fa discriminazione tra i lavori. Il cambiamento non è in quello che si deve operare, ma è il cuore dell’uomo a dover cambiare. Come Gesù, Giovanni Battista non conosce mestieri irreligiosi, ma guarda agli uomini, ai loro cuori non attenti a Dio. Non il mestiere guasta l’uomo, ma l’uomo non attento a Dio guasta l’uomo: oggi a Copenaghen si sta considerando come esso possa danneggiare anche il creato.
Il profeta vuole un’esistenza autenticamente umana – cioè giusta, basata sulla fraternità solidale – vissuta nella società. Il frutto della conversione è la comunione dei beni. Luca mostra un Giovanni molto vicino a Gesù: è il precursore anche dell’insegnamento etico del Signore, che si manifesterà pienamente nella prima comunità cristiana in Gerusalemme, dove non c’erano poveri.
– “Il popolo in attesa” è come una definizione della folla, e questa è sinonimo di “tutti”. E Giovanni invita tutti a non temere perché c’è il “più forte”: è Gesù che viene, dice Luca, più forte perché ha e dona lo Spirito, al punto che, appena dopo la resurrezione, sarà chiamato “il Signore” (Atti 1,5; 11,16). Così Giovanni è precursore anche della Chiesa, di quel “battesimo dello Spirito” che è completamento di quello “nell’acqua”. E’ la testimonianza dell’amore di Dio per ogni creatura umana, che perciò è “buona notizia”, vangelo da accogliere e vivere con gioia, nell’amabilità, senza permettere che le angustie dell’esistenza soffochino la pace del cuore, per la certezza che la presenza di Gesù dona che quell’amore è vero e immenso per tutti e ciascuno, e custodisce “i cuori e le menti” come dice Paolo ai Filippesi (4,4.7). C’è una dimensione etica nell’annuncio della venuta del Signore, che non si ferma ai sentimenti di riconoscenza, ma si immerge nel comportamento morale.
Quanti cercano un rapporto con Dio ricevono come risposta il rimando al comandamento dell’amore. Giovanni lo fa con il suo stile austero di vita, non proponendolo a tutti, ma invitando concretamente tutti a non mantenere due tuniche quando ci si trova davanti chi non ne possiede neppure una. Soprattutto lo fa con il suo esempio, presentando nella propria persona le esigenze e i segni concreti della essenzialità, che non si lasciano pensare senza suscitare nel cuore turbamento e inquietudine.
La compassione che si fa dono è la forma più piena di fraternità e ci viene come un appello alla responsabilità personale, guardando quello che Dio domanda
a ciascuno, senza girare lo sguardo attorno per calcolare quanto gli altri sanno esercitare la carità. Lo sguardo che misura sugli altri è alibi per l’indisponibilità. Per il credente guardare all’amore di Dio è tensione ad imitarlo, non è sinonimo di obbligo fiscale o di vita oppressa e intristita dalla coscienza della sofferenza umana, ma piuttosto di vita assunta nell’attesa del Signore, che Luca definisce come il buon samaritano che dice: “Và e anche tu fa così” (Lc.10,37).
Non una costrizione, perciò, ma la libertà di essere vivi nella gioia e nella pace, perché nell’amore.
“Non negate, non estorcete, non accumulate”: tre risposte del Signore per essere con Lui operatori di fraternità, per una terra in cui abiti la giustizia. Tre verbi del Signore che Luca ci trasmette perché sappiamo dialogare con le esigenze profonde dell’uomo, aiutandolo a capire che l’amore rinnova e che la paura invecchia il cuore.
Il brano, che è proprio di Luca, attraverso lo schema di domande e risposte, fa emergere che cosa intende Giovanni Battista quando invita a “fare frutti degni di conversione”. Lo fa con degli esempi, che potrebbero essere aumentati, e che invitano il lettore ad interrogarsi sulla propria vita. Luca riferisce le tre risposte, quasi anticipando l’insegnamento di Gesù, per dire ai battezzati cristiani che è il pensiero di Dio, sempre attuale.
“Che cosa dobbiamo fare?” è la domanda della folla anonima.
Ad essa è data una risposta di carattere generale. Giovanni annuncia, con l’autorevolezza che gli viene dalla propria scelta di vita e dal dono della profezia, che alla base di ogni conversione c’è l’amore del prossimo, nella linea dei profeti che lo hanno preceduto: “Non è questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo?” (Is.58,6-7). Profeti e libri sapienziali annunciano il valore di espiazione e purificazione dell’amore che, non vissuto, offende la sensibilità di Dio, e vissuto la fa propria. Giovanni ha davanti agli occhi i poveri venuti ad ascoltarlo, spesso senza un mantello che li riparasse, dopo lunghi viaggi a piedi, dal freddo della notte. Conversione per lui significa vivere la volontà del Signore nell’amore concreto. Le altre due risposte sono rivolte a “pubblicani” e “militari”, categorie particolarmente invise all’opinione della gente, i primi perché sospettati e accusati di disonestà, i secondi perché spesso usavano la forza per estorcere favori e privilegi. Ai primi è chiesto di non arricchirsi ingiustamente, ai secondi di non esorbitare dal loro dovere. La conversione, per Giovanni, non esige atti fuori dall’ordinarietà della vita umana. Non chiede penitenze e riti speciali, non discrimina i mestieri; è il cuore che deve cambiare, come bene spiega un commento: “Come Gesù, Giovanni non conosce mestieri irreligiosi, ma soltanto uomini senza Dio. Non il mestiere guasta l’uomo, ma l’uomo senza Dio guasta il mestiere” (Rengstorf: “Vangelo di Luca”).
Il precursore di Gesù propone un’esistenza umana autentica, giusta, basata sulla solidarietà, vissuta nella società. Non è la legge che motiva l’etica, ma l’uomo nel bisogno. Così Giovanni è precursore dell’etica evangelica. Vengono domande forti per l’attualità segnata in questi giorni dalla morte per freddo di un povero, a Napoli. A che punto siamo nel rapporto con i poveri, nell’accoglienza degli stranieri, nell’essere responsabili dei doveri civici, nel rispetto della dignità di ogni uomo?
– L’annuncio della presenza di Gesù.
Luca riferisce ancora parole di Giovanni Battista, non più rivolte alla “folla”, anonima, che lo riteneva il “Messia” promesso da Dio. La “folla” ora è definita “popolo in attesa”. Non si tratta dell’umanità in senso generico, e globale, ma del popolo credente, di una comunità ben disposta verso Dio. Giovanni si rivolge a questo popolo, guardandolo nella sua dignità di popolo di Dio, a cui è dovuta la verità intera. Lui – dice con nettezza – non è il “Messia”, “ma viene uno più forte di me. Io vi battezzo con acqua, ma lui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Davanti a lui Giovanni si considera come uno schiavo ed anche meno, perché Gesù non è un semplice essere umano, per quanto grande. “Più forte”, perché non punterà a domandare al popolo una sottomissione legalistica, né la moltiplicazione degli sforzi di volontà e di religiosità cultuale per ottenere favori come frutti di una obbedienza di persone impaurite di Lui. Gesù chiede solo di lasciarsi cambiare il cuore: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”, aveva annunciato Ezechiele già da cinque secoli (Ez.26,35).
Lo Spirito del “cuore nuovo” non è la fine dei tempi, in senso cosmico di termine, ma è “compimento” della promessa di Dio, ultima parola di Lui che si rivela, inizio di un’era nuova. Luca ha presente quanto ha descritto all’inizio degli “Atti degli Apostoli” con il prodigio delle lingue di fuoco nella Pentecoste (Atti 2,1-12). Lì inizia il tempo nuovo, nasce la Chiesa: la folla diventa popolo, il caos si ordina nella famiglia degli uomini fatti figli di Dio dall’amore scambievole.
Questo, perciò, è il “lieto annuncio”, il vangelo che Luca trasmette e offre ai lettori come vangelo per sempre, sempre attuale, sempre da annunciare. E domanda la serietà della conversione, l’impegno concreto, lo spendere se stessi sporcandosi le mani dove la folla è ancora avvolta dall’anonimato e dal disinteresse di chi non se ne accorge.
“Tutto ciò doveva essere preannunciato, perché altrimenti egli avrebbe destato spavento. E così fu atteso con speranza perché già contemplato nella fede”.
(Agostino: “Commento al Salmo 109)