IV DOMENICA DI AVVENTO – Anno C
(Mic.5,1-4; Sal.79; Eb.10,5-10; Lc.1,39-45)
Nella lettera agli Ebrei ci viene annunciato che Cristo, entrando nel mondo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio; la tua volontà”. Sono le stesse parole del Salmo 40 e ci preparano ad accogliere il mistero del Natale in questa domenica che ne è quasi la vigilia e ci domanderebbe un silenzio, che forse oggi non ci sarà possibile. Accogliamolo ora questo invito alla contemplazione dell’Incarnazione, voluta dalla gratuità dell’infinito amore di Dio. Un amore che non vuole chiudersi nella propria autosufficienza e decide di farsi relazione anche con l’umanità, divenendo il capofila di una reciprocità fino allora sconosciuta al mondo. Guardiamo alla profondità di questo mistero superando l’enfasi della festa ed anche la gioia della liturgia solenne per soffermarci a contemplare soprattutto la sottomissione di Cristo alla volontà di salvezza e di amore del Padre. Guardiamo il corpo di Gesù dalla fragilità del bambino fino alle sofferenze della morte sulla croce. Nel corpo di Gesù, Figlio di Dio incarnato, uomo come noi e tra noi, ognuno può diventare uomo nuovo, trasformato nel cuore, capace di rinunciare all’autonomia solitaria ed egocentrica per scegliere l’obbedienza all’amore di Dio, in solidarietà totale con tutti i bisogni dell’umanità.
Natale significa entrare nell’esemplarità che ci viene da Gesù, far nostra la certezza di questa luce: tutti siamo santificati dal suo corpo, dalla sua concreta realtà di uomo. La gioia del Natale viene proprio dalla possibilità che ci viene donata di vivere – con lui presente accanto a noi – la sua medesima obbedienza all’amore del Padre. Oggi, invece, siamo portati ad esasperare l’esigenza di autosufficienza, di ricerca della autorealizzazione personale, tanto da considerarle valori sommi. Il Natale ci invita a metterci in un atteggiamento che sia controcorrente. Ci aiuta ad uscire dalla paura dell’obbedienza a Dio, dal sospetto che Dio voglia opprimerci, invece che liberarci. Ci invita ad uscire dalla tentazione di considerare prigionia i rapporti duraturi, i rapporti lunghi della vita vissuta nella reciprocità all’interno della famiglia, della comunità, nella vita professionale e sociale. Essi non sono prigionia, ma stimolo che ci provoca alla fedeltà dell’amore. La gioia del Natale ci viene proprio dal comprendere che la sottomissione a Dio nella reciprocità a lui ed ai fratelli è libertà, è vita piena e gratificante.
È la gioia che vediamo nell’incontro fra Elisabetta e Maria: Dio è fra noi, la sua presenza è liberante e pacificante. A ciascuno di noi è chiesto, come a Maria, di fare qualcosa perché l’altro abbia una vita sempre più piena, più intensa. La gioia del Natale non è intimismo solitario, ma è condivisione. Ce lo fanno capire molto bene le parole di Agostino: la tua anima non è più tua, ma di tutti i fratelli e le loro anime sono l’unica anima di Dio. Dio è in noi e noi siamo in lui nella reciprocità dell’amore. Questo è Natale: celebrare nella fede la condivisione dell’amore.
Il capitolo 2 di Luca ci mostra due donne che vivevano lontane, due maternità accolte nell’obbedienza della fede: esse si incontrano e si scambiano la gioia della presenza di Dio in loro, è la gioia che fa esultare Giovanni nel seno della madre, è la gioia che dona bellezza al vivere. Impariamo da Maria ed Elisabetta che la vita dello Spirito è accettare la salvezza e condividerla: esse si accettano a vicenda, vivono insieme – confermandosi a vicenda – il tempo dell’attesa. Il tempo e lo spazio si dilatano, diventano tempo e spazio di Dio, certezza dell’esaudimento.
Facciamo crescere in noi desideri di pace, impariamo che modello di ogni comunione cristiana è sostenerci fra noi, ricordando la Parola. Facciamo crescere in noi la fede che ci è stata donata. Maria ed Elisabetta sono segno di questa unità nel nome del Signore, che non si lascia scoraggiare dalla propria debolezza. Benediciamo questa debolezza, perché è il solo spazio che ci permette l’incontro, la gioia della condivisione con tutti i fratelli, siano essi i nostri familiari, amici o persone lontane, stranieri o extracomunitari. L’amore viene in noi per dono gratuito di Dio: più abbiamo coscienza della nostra povertà, più si fa luminoso e celeste lo spazio che apriamo alla presenza di Gesù tra noi. Benediciamo chi ci aiuta a credere, benediciamo quanto germoglia e cresce nell’amore ed ha insieme radice di terra e luce di cielo. Benediciamo per l’aiuto reciproco che l’uno dona all’altro. Ripetiamo con Ambrogio: che l’animo e lo spirito di Maria siano in ciascuno di noi per magnificare ed esultare. La madre è una sola, ma Cristo è tutto in tutti.
La liturgia di questa quarta domenica di Avvento ci invita ad una riflessione attenta al mistero che domani celebreremo nella festa.
C’è una tendenza, influenzata forse da alcune espressioni di pensiero orientale, che guarda ad un Assoluto impersonale, come qualcosa in cui tutto si condensa e si riassorbe, in cui non c’è posto per l’incarnazione, perché la carne non ha una consistenza propria. L’atteggiamento che ne deriva non è quello di salvare il mondo, ma di salvarsi dal mondo. Il fascino dell’Oriente in Occidente conduce ad una razionalità che non accoglie il mistero, dove tutto è ricondotto alle ferree leggi della pura ragione, senza più attenzione per le vicende concrete della vita nella carne, e dove sempre più frequentemente si è presi dalla vertigine del nulla: anche la fede è vissuta non con la sovrabbondanza dell’amore, ma con la carestia della sapienza, con il contagocce del calcolo.
C’è, infine, una realtà, quella che la fede cristiana chiama divino-umanità, che non confonde divino e umano, non li separa, ma li armonizza in una bellezza in cui il divino non sopprime l’umano, e l’umano trova la sua più alta qualità nel divino.
È la bellezza dell’incarnazione, il frutto dell’iniziativa di Dio, che vuole comunicarsi pienamente, e il tempo e la storia sono il luogo dell’apprendistato di questa comunione del divino e dell’umano. Dirà nel secondo secolo Ireneo di Lione che il tempo “permette all’uomo di abituarsi a ricevere Dio e a Dio di abituarsi ad abitare nell’uomo”.
Il Natale di Gesù è la manifestazione di un progetto eterno che si compie nell’unione del divino con l’umano, e con la mediazione della responsabilità dell’uomo, del divino con tutto il cosmo: “L’illimitato si limita in un modo ineffabile, perché il limitato si dispieghi fino alla misura dell’illimitato” (S. Massimo il Confessore).
È come una nuova qualità della vita di ogni essere creato, un’armonia in cui ogni gesto, anche semplice e consueto della vita umana, può portare in sé il divino e dirlo all’altro con cui lo viviamo o verso colui cui lo dedichiamo. È la vocazione più alta della corporeità. A Natale il Verbo si è fatto carne.
Quest’armonia nell’evento del Natale è chiamata “pace”.
I primi cristiani hanno capito così il diventare uomo di Dio, ed hanno detto: “Cristo è la nostra pace” (Ef.2,14).
Tutta la corporeità in cui abita il divino è “pace”, comprensione fruibile, tangibile, come diceva in modo bellissimo il medioevo cristiano: “Il pensiero di pace diventa opera di pace”.
Perciò la meditazione degli antichi cristiani guarda al corpo del Bambino di Betlemme senza essere prigioniera delle emozioni un po’ dolciastre dei secoli successivi, ma sa leggere nella mangiatoia il dono di sé che Gesù vivrà “fino alla fine”: nelle fasce della mangiatoia le bende del venerdì santo, nella mirra dei magi i profumi delle donne al sepolcro, nella grotta scura il mistero della discesa all’inferno del peccato e della morte per portare salvezza e vita. Ogni aspetto della corporeità è segno eloquente del Dio vicino.
Il Vangelo di Luca, con il racconto della visitazione ci parla di questa corporeità:
• due donne, una in vecchiaia, una giovanissima;
• due grembi, uno sterile, uno fecondo;
• due maternità al di là delle possibilità umane, una generata nella fede, quando non era più il tempo, l’altra fecondata dalla Parola;
• due bambini che scalciano di gioia, da uno raccolta, da un altro donata;
• due felicità, una proclamata senza invidia, una ricambiata con gioia.
Nei due corpi due felicità: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” e “L’anima mia magnifica il Signore”.
La corporeità umana, così spesso sottovalutata e commercializzata, fatta oggetto delle speculazioni le più negative, è sacramento del divino. Noi siamo interpellati da questa corporeità umana intrisa di divino, che ci permette di essere luogo vivo in cui si realizza il Natale del Signore. Nell’esperienza di fede questo è possibile soprattutto per il dono immenso dell’Eucarestia che, visitando la corporeità che si rende docile, le permette di portare il divino in superficie, nelle cose, nelle relazioni, nel lavoro, nella storia.
Guardiamo a Maria, che è il fiore del nostro desiderio di reciprocità:
“Che ti recheremo mai, o Cristo, per il tuo essere venuto in terra, come uomo per noi? Ognuna delle creature che sono da te ti reca un dono di gratitudine: gli Angeli il loro canto, il cielo il suo astro, i magi i loro regali, i pastori il loro stupore, la terra la sua grotta, il deserto la sua mangiatoia.
E noi, noi ti rechiamo la Vergine Madre”
(Anatolio di Tessalonica, inno dei Vespri del 25 dicembre)
“Entrando nel mondo Cristo dice: ‘Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato’. Allora ho detto: ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”.
Il verbo “dire” è ripetuto per tre volte nel brano; ribadisce la novità che Dio stesso introduce nel suo rapporto con l’uomo. Dai sacrifici dettati dall’istinto, che non gli sono graditi, emerge quello che gli è gradito, perciò non offerte e vittime, ma attenzione umile e docile a quello che è scritto nel rotolo della vita di ciascuno per conoscerlo e attuarlo. Questo gli è gradito, come è scritto nel salmo 40.
È nella vicenda di Gesù, il Figlio che si fa uomo, che questa novità si mostra. Il corpo della sua umanità è il rotolo su cui si legge quanto Dio gli propone e la sua adesione che è causa e modello, per ogni donna e uomo che vogliano seguirlo, di percorrere la sua medesima strada, di poterlo fare realmente. Al Padre Gesù non offre altro se non se stesso per compiere quanto gli ha chiesto, l’attenzione del suo pensiero, l’abbandono di quanto Egli non vuole, la scelta libera di quello che vuole. Questa sua interiorità dice ai credenti che non bisogna cercare fuori del proprio corpo, della propria vicenda personale, delle circostanze che segnano il cammino della vita, la materia del proprio culto, del proprio amore. Tutti siamo beneficati dalla sottomissione di Gesù nella fede. Tutti siamo chiamati a riviverla nella nostra sottomissione ad essa.
L’incontro tra Elisabetta “nella sua vecchiaia”, “che era detta sterile”, e Maria che dal momento della annunciazione sa della gravidanza di lei, fa da sfondo al primo incontro tra Gesù e il suo precursore. L’iniziativa di Dio comincia ad attuarsi per la prontezza giovanile e affettuosa di Maria che “in fretta” va a visitare la parente. I due bambini si incontrano e si riconoscono, come Luca annota con finezza di medico, nel sussulto di Giovanni nell’utero di Elisabetta, quasi come una piccola danza di gioia per il Signore già presente.
Come insegnano i due bambini, il regno di Dio si attua stando al proprio posto nella vita: Giovanni, dal proprio posto oscuro, è già il precursore di Gesù e lo indica alla mamma con la propria gioia! E come Maria insegna l’esigenza della premura nelle opere dell’amore, perché “la grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze” (Ambrogio, comm. su Luca). La gioia dice ai quattro protagonisti che nel corpo di Maria, lo Spirito sta attuando quello che era stato promesso a Zaccaria nel tempio, all’ora dell’offerta dell’incenso. L’acclamazione “a gran voce” è come un grido alto di benedizione, come una liturgia del cuore femminile che le donne ebree esprimevano quando riconoscevano la grandezza di Dio che operava nella loro debolezza, come per Giuditta: “Benedetta sei tu, Figlia, davanti al Dio altissimo, più di tutte le donne che vivono sulla terra. Il coraggio che ti ha sostenuto non sarà dimenticato dagli uomini che ricorderanno per sempre la potenza di Dio” (Gdt.13,18-19). È l’anticipazione della venerazione della Chiesa per Maria.
Le parole di Elisabetta si concludono in terza persona, perciò sono universali. La beatitudine della fede vale per tutti i credenti che accolgono la Parola di Dio e la mettono in pratica. Essi trovano in Maria il modello e la strada.
Efrata, dice una nota della Bibbia di Gerusalemme, molto probabilmente è un nome di donna che significa “feconda”: inizialmente era riferito a una comunità umana che, al tempo dei patriarchi, si era stanziata in un piccolo territorio su cui poi sorse una cittadina con lo stesso nome. È il luogo dove Rachele, moglie di Giacobbe, partorì Beniamino e morì nel parto. Da Beniamino, seguendo la sua discendenza, passa la genealogia di Davide che, nella sua prosecuzione è genealogia di Gesù (Mt.1-16).
Rachele “fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme” (Gen.35,19). Gli ebrei avevano caro quel luogo, segno della fecondità nella sofferenza. Giuseppe e Maria, andando verso Betlemme, dovettero passare di lì e certamente Maria l’avrà ricordato e avrà capito che la sua sarebbe stata una maternità nel dolore, che il dolore avrebbe accompagnato la sua esistenza fino al sì della perdita tragica di lui. Avrà rinnovato l’offerta di sé, come Gesù stesso, in un’unica obbedienza,
Se Maria è “la madre del mio Signore”, allora la sua via riguarda e coinvolge tutti coloro che credono nel Vangelo e vogliono seguire Gesù. La vita del Bambino che nasce uomo da lei, passa per la strada di Rachele. Così per noi. Perciò bisogna imparare a collegare i misteri della vicenda di Gesù, le fasce della mangiatoia e quelle della deposizione dalla croce. È un invito a non sottrarsi alla fatica della piccolezza e della inadeguatezza davanti alle responsabilità. È la forza di Dio che fa diventare “feconde” Elisabetta, che “era stata detta sterile”, che fa fiorire la maternità in un corpo che “non conosce uomo” nella piccolezza della verginità.
Siamo ricondotti alla fede. Credere è affidarsi a Dio in ogni fecondità dolorosa, non cercare l’esenzione dal dolore, ma restare fedeli, nel posto che ci è stato chiesto di avere, credendo ala potenza dell’amore.
Siamo sospinti a sentirci “benedetti”, a diventare persone che “benedicono”.