IMMACOLATA CONCEZIONE – Anno C
(Gen.3,9-15.20; Salmo 97; Ef.1,1,3-6.11-12; Lc.1,26-38)
La festa dell’Immacolata Concezione di Maria, posta nel cuore dell’Avvento non è solo invito alla lode di Maria, madre di Gesù e madre nostra, ma anche invito alla contemplazione di lei, che Dio ha scelto, contemplazione della sua risposta all’iniziativa di Dio.
La meditazione di oggi sarà appunto centrata sull’importanza per ciascuno di noi dell’assunzione della nostra responsabilità personale. Nell’Annunciazione l’iniziativa di Dio domanda a Maria prontezza nella risposta e reciprocità nei confronti del Signore che chiama. Lo Spirito Santo non tollera lentezze nelle persone che raggiunge. Ne sarà espressione viva, dopo la chiamata, l’immediato andare di Maria da Elisabetta, “in fretta”, “senza indugi”, come dice il Vangelo. La responsabilità dell’uomo, della donna che il Signore chiama, il suo impegno nella vita permettono al disegno di Dio di non restare un desiderio del suo cuore, ma di farsi carne nella tangibilità della storia. È questo il mistero dell’impotenza di Dio, nei confronti della creatura che è sorda di fronte alla sua iniziativa. Maria, invece, con il suo “eccomi!” permette a Dio di entrare concretamente nella storia. C’è un legame profondo tra il suo assenso, quello di Abramo, di Mosè, di Gesù: quanti hanno detto il loro sì all’iniziativa del Padre nella storia hanno reso possibile che essa diventasse storia di Dio, storia sacra. L’assunzione di responsabilità dei sì degli uomini inserisce il disegno di Dio all’interno della realtà terrena: Gesù sarà riconosciuto come galileo dall’accento del suo parlare, i suoi lineamenti hanno i tratti di quelli di Maria, da lei e da Giuseppe ha appreso i gesti, i comportamenti. La maternità verginale di Maria può stupire, ma forse è ancora più grande sperimentare come l’onnipotenza creatrice di Dio si affidi senza riserve alla responsabilità dell’uomo, si consegni tutta nelle sue mani, si inserisca totalmente nella sua realtà tangibile, nella sua storia.
Il sì di Maria ha un’altra componente, più difficile da accettare per la fede. È la diversità tra il suo progetto e quello di Dio, è la difficoltà di adeguare il proprio disegno a quello dell’altro, difficoltà che rende ardua anche la convivenza nel matrimonio. Maria dovrà convincersi che il suo progetto di vita, la sua maternità non può realizzarsi attraverso Giuseppe e con la sua tenerezza dovrà fargli accettare una paternità che non è biologica. Questa adeguazione del nostro progetto di vita a quello di Dio è la fatica grande del cammino di fede. Essa si traduce anche nella difficoltà quotidiana di comprendere ed accogliere la diversità dell’altro che ci sta accanto non solo nella famiglia, ma anche nella società. È qui la responsabilità del vivere, che è vivere in relazione, relazione con l’altro, relazione con Dio. Gesù stesso nel corso della sua vita ha detto al Padre “Non si faccia la mia, ma la tua volontà” e ci ha insegnato a pregare con queste stesse parole. La responsabilità fondata sulla centralità della relazione fa sì che ogni matrimonio, non solo quello di Maria e di Giuseppe, sia un unico compito per due anime, ma secondo due cammini distinti. Qui è la forza dell’amore: la sorgente della fecondità è radicata in Dio che si inserisce nelle nostre vite con proposte che sono nate nella profondità del suo amore per ciascuno di noi.
L’importanza dell’assunzione di responsabilità ha ancora un altro aspetto. Quando diciamo sì al progetto, che possiamo identificare in Gesù, presenza incarnata nel mondo dell’amore di Dio, l’eccomi di ciascuno di noi non è solo atto dell’individualità singola, ma si apre a tutta l’umanità. In Maria questa apertura è evidentissima ed esemplare. Donna e madre, affinata dall’amore dello Spirito, subito si accorge di Elisabetta, dei pastori, degli sposi di Cana, dei discepoli. È Maria per l’umanità, per tutta la Chiesa, perché, come ha detto il Figlio prima di andare alla passione, gli uomini siano fra loro una cosa sola. Ai piedi della croce non avrà nel suo cuore solo il Figlio suo, perché tutti gli uomini divengono suoi figli: ogni uomo appartiene a Dio e quindi a lei.
Maria è avanti a noi sulla via in cui anche oggi Gesù ci viene incontro: egli costruisce la sua Chiesa sulla responsabilità, che affida a ciascuno di noi, così come la ha affidata a Maria. Ce la affida perché la costruiamo in comunione gli uni con gli altri: è un cammino difficile, ma è questa la proposta che egli fa a ciascuno di noi, così come la ha fatta ad Abramo, a Mosè, a Maria… Ci chiede di rispondere alla chiamata con il nostro eccomi, nella premura per tutta l’umanità.
Questa è una liturgia che ha suscitato grande devozione, fin dal Medio Evo monastico, che si è espresso nelle note del canto antico: “Tota pulchra es Maria … ora pro nobis, intercede pro nobis!”.
Ma la comunità cristiana è chiamata a guardare, nell’intensità della devozione, la luce della propria vocazione alla santità. La liturgia che celebriamo ha il coraggio di proporre – sullo sfondo della tragedia del rifiuto del primo uomo, che abbiamo ascoltato nella prima lettura – la capacità di Dio di rialzare l’uomo caduto. L’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini ci ha ricordato che tutti siamo stati “benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”. È una vocazione altissima, svelata alla sensibilità umana nella figura di Maria. In lei questa capacità di Dio si esprime nella pienezza della gratuità. Come un dono che la previene prima della sua stessa possibilità di consapevolezza del bene e del male, al momento stesso del concepimento – cui la devozione ha dato la data dell’8 dicembre, nove mesi prima dell’8 settembre, giorno in cui viene ricordata la sua nascita. E noi restiamo incantati dal fascino di questa trasparenza del divino, di questa purezza dell’umano, che ha lasciato insoddisfatti mistici, teologi, poeti ed artisti che tentano di descriverli, senza poter pienamente farlo. Anche Bernadette Soubirous non trovava bella, come la donna che le era apparsa, nessuna delle immagini che le venivano proposte. E lo ripete oggi tra noi uno scrittore che si definisce “laico”, nel suo libro “Nel nome della madre”. Incanto e inadeguatezza accompagnano la contemplazione.
Ma la Chiesa ci invita a guardare questa creatura, che è sorella a ciascuno nell’umanità, e ci ricorda contemporaneamente che è lei che “schiaccerà la testa”, per la capacità di Dio nella sua persona. Mentre ci invita a guardare le sue virtù per farle nostre, ci ricorda che la sua vittoria in noi apre la strada alla realizzazione di un destino eterno: …” in lui ci ha scelti, prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità”.
La tradizione, soprattutto occidentale, ha privilegiato un’interpretazione prevalentemente morale, comportamentale, della santità. Questa però non consiste propriamente nel non peccare, ma piuttosto nel credere alla misericordia, a contare sull’amore. Il Santo è come un canto che si innalza a Dio, che vince nell’essere misericordioso, nel rendere possibile all’uomo una qualità di vita che gli sarebbe impossibile raggiungere da solo. La santità cristiana è il primato dell’essere sul fare, della gratuità sulla legge, di quel “lasciarsi fare”, che contempliamo in Maria di Nazaret. Il santo è colui che dice a Dio: “Non io, ma Tu”, colui che fa spazio nell’accoglienza ad una santità “ontologica” senza drammatizzare la povertà personale, che tante volte non permette la santità “morale”. Maria accoglie la santità e crede in Dio.
Questa ottica di gratuità, nella grazia che previene e nella risposta che si abbandona pienamente, nella fiducia totale, porta alla coscienza che altro nome della santità è la bellezza. Avere una “condotta santa” (1Pt.2,12), come dice Pietro, nella sua prima lettera, significa avere una “condotta bella”. E questa è una sfida nella considerazione della scena umana, drammatica non solo nella pagina della Genesi, ma nelle pagine dei giornali dell’oggi. È possibile una realtà nuova, una realtà bella.
La bellezza della condotta non è un’impresa individualistica, il frutto dello sforzo, magari eroico, del singolo, ma è la conseguenza della comunione, del consenso della comunità umana. Perciò l’Immacolata ha trovato posto non solo nel cuore e nei desideri dei credenti, ma è stata innalzata al centro delle piazze nelle città – a piazza di Spagna a Roma, come a piazza del Gesù a Napoli, sulla guglia del Duomo a Milano – perché la bellezza della condotta appartiene al consentire cristiano dei cittadini. La condotta di chi la ama diventa pienezza di vita in ogni momento e in ogni luogo: ogni convivenza può diventare casa di Nazaret, ogni relazione giardino dove Dio può passeggiare.
Maria ci dice che la santità a cui siamo chiamati è impegno per una creazione che si mostri “molto bella” come apparve nel primo giorno agli occhi del Creatore (Gen.1,31). Così i cristiani comprendono che ogni gesto, ogni parola, ogni azione che nasce nel consenso e nel rispetto reciproco, è segno della capacità di Dio di far vincere il bello sul brutto. E si sentono chiamati a portare la bellezza nelle relazioni, nella tensione costante a trasformare le relazioni in rapporti fraterni, ispirati a gratuità, misericordia e perdono; in cui nessuno dica all’altro: “io non ho bisogno di te” (1Cor.12,21), perché ogni ferita alla comunione sfigura la bellezza dell’unico corpo.
È la bellezza che emerge dalla sobrietà, dalla lotta contro l’idolatria e contro la logica del mondo. La bellezza che si manifesta dove si fa vincere la comunione sul consumo egoistico e sulla voracità.
Oggi, ripetendoci con le parole di Paolo che Dio
“ci ha scelti, prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità”,
la Chiesa ci pone davanti la luce di Maria Immacolata perché illumini il nostro cammino nell’impegno di somigliarle.
Ringraziamo il Signore, pensando con riconoscenza a quelle persone che nella loro vita sono state manifestazione della bellezza di Maria. Diciamogli il nostro grazie per aver ricevuto l’icona bella delle persone che vivono e muoiono nella sua immacolatezza e chiediamogli di poter somigliare almeno un poco alla bellezza della Madre sua e nostra.
“…L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria”
L’annuncio, collegato con quello precedente a Zaccaria (1,8-15), quasi a sottolineare l’unità dell’azione di Dio, avviene in un luogo non dedicato al culto, ma sconosciuto e mai nominato nell’Antico Testamento, quella Nazaret che – per essere in Galilea – era sospettata di fede non ortodossa perché inquinata dalla convivenza con gente pagana.
Maria è al centro della scena. È fidanzata ufficialmente a Giuseppe, di discendenza davidica, cosa che avrebbe assicurato al Bambino la definizione di “figlio di Davide”. Così Luca rivela la sua sensibilità che pone l’accento sulla preferenza di Dio per le situazioni più umili e meno religiose in termini di formalità, come poi Gesù adulto confermerà:
“Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.
Si, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”
(Lc.10,21)
A questa umiltà, già certamente abitata da Dio, e alimentata in Maria dalla Parola ascoltata e custodita, Gabriele si avvicina in modo apparentemente meno solenne di quanto aveva fatto con Zaccaria nel tempio, ma quasi trepidante, direttamente ed interiormente: la realtà è così carica di divino che l’angelo sembra entrare “in punta di piedi”. L’aspetto interiore dell’annuncio è un invito a fare attenzione alla nostra interiorità personale, a partecipare e a rivivere la vicenda di fede di Maria. Con lei soffermiamoci a meditare la Parola per poter comprendere la nostra personale chiamata a collaborare all’opera della salvezza.
L’invito dell’angelo è innanzitutto a rallegrarsi per il fatto di essere stata destinataria, già dal passato, di una azione di Dio che dura nel presente. Letteralmente andrebbe letto: “Tu sei stata e rimani colmata del favore divino”. Il saluto dice l’elezione di Maria e la ragione del perché venga detto a lei quello che, nella Bibbia, viene detto a persone chiamate a missioni particolari: “Il Signore è con te”.
La vocazione di Maria è la maternità di Cristo nel cuore degli uomini.
Per questa presenza di Dio Maria è invitata a “non temere” e, difatti, non appare impaurita o schiacciata. C’è come una prontezza, una semplicità di atteggiamento che dice la pienezza di maturità della sua interiorità nella fede. San Bernardo di Chiaravalle dice che la creazione tutta, in quel momento, era sospesa nell’attesa della risposta di Maria e la sollecitava ad affrettarsi a darla. La sua domanda – quella domanda che accompagna sempre i racconti di vocazione nella Bibbia, come per affermare che Dio chiama sempre l’uomo nel rispetto della sua coscienza e della sua libertà – la domanda di Maria non è dettata da incredulità o dubbio, ma dice insieme lo stupore e traspare già la disponibilità che, proprio perché senza riserve, chiede di comprendere come vivere la proposta di Dio. Perciò Gabriele le può spiegare quale sarà la sua missione, il suo compito.
Maria è dunque maestra dell’umiltà cristiana nella creatura che non si nasconde dietro l’inadeguatezza e non si ritrae davanti alle proposte. Luca ci dice contemporaneamente la grandezza dell’umiltà di Maria e la divinità di Gesù, “Figlio di Dio” che nasce da lei “senza conoscere uomo”. È un invito forte, in questo tempo liturgico di rinnovata disponibilità al venire del Signore nella storia, ad interrogarci sulle pigrizie, sulle paure, sulle inerzie che mortificano nella vita dei credenti la vocazione ad essere operatori della speranza e testimoni gioiosi di essa, e non solo fruitori ripiegati sulla necessità della propria consolazione.
Maria riceve come garanzia di vivere quanto le è stato proposto lo Spirito Santo. Lui è “la potenza dell’Altissimo”, creatrice come nella Genesi, protezione come nel cammino dell’Esodo, santificazione come a Pentecoste. Perciò “colui che nascerà sarà santo”.
Gabriele dona come una raffigurazione per la fede di chi contempla la scena: se Dio può rendere fecondo il corpo di una donna anziana, può anche operare il miracolo di una gravidanza verginale, perché “nulla è impossibile a Dio”. Maria lo crede, lo fa suo nella sottomissione della mente e nel cuore docile. Ed è la Madre del Signore!
Se Gesù Cristo è l’evento che rivela il Dio che si comunica all’uomo e alla storia, e se l’evento accade attraverso l’abbassamento del divino nell’umano con l’incarnazione del Figlio di Dio che prende la carne dei figli degli uomini (Fil.2), il tempo liturgico dell’Avvento ci aiuta ad accogliere e meditare con coscienza rinvigorita ed approfondita quello che la Chiesa opportunamente indica da sempre e propone come mistero principale della fede cristiana, assieme all’altro dell’unità e trinità di Dio, quello cioè dell’incarnazione.
Dalla parte dell’uomo, destinatario dell’iniziativa di Dio, la condizione che rende possibile l’evento è il consenso espresso da Maria di Nazaret: “Nella pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” scriverà Paolo ai primi cristiani (Gal.4,4). L’abbassamento di Dio nel Figlio trova accoglienza e condivisione in Maria, nel suo farsi luogo personale, ambiente libero per riceverlo con amore nella propria carne umana. È quello che Luca racconta nel vangelo dell’infanzia con la pagina dell’annunciazione. Maria vi è presentata come la figlia di Sion, il popolo della promessa, che offre il proprio corpo e tutto di sé nella verginità, in nome dell’umanità. Si apre ad accogliere il Figlio di Dio che, in lei e da lei, per l’azione dello Spirito si fa carne dell’umanità.
Così Maria, nella propria personale storia di fede docile e senza riserve, dal versante della risposta umana all’iniziativa di Dio, è essenziale per l’avveramento della sua manifestazione nella storia. E, così, la sua vicenda precede e accompagna, facendolo sentire possibile, il cammino di adesione che la Chiesa, in ogni tempo, propone ai suoi figli, e oggi a noi in questa festa amata. La Chiesa ci dice che possiamo vivere guardando a lei e cercando di camminare nella fede, vivendo “come Maria”.
La cooperazione di Maria all’evento dell’incarnazione va oltre le pagine dell’infanzia di Gesù raccontate da Luca, si estende a tutto il suo mistero e permette di partecipare dei frutti dell’evento dell’incarnazione a tutti gli uomini, e per conseguenza non si può prescindere dal suo coinvolgimento e dalla sua condizione materna.
È quello che viene espresso nel quarto vangelo.
Il primo segno della presenza del divino nel maestro Gesù, viene offerto ai discepoli a Cana di Galilea (Gv.2,1-12), per la mediazione della madre che si accorge della negatività ed intercede per la gioia e la pace. La presenza di lei, ai piedi della croce, e la sostituzione che Gesù morente opera tra sé e il discepolo amato, figura di ogni discepolo, nella relazione con la sua maternità (Gv.19,25-27), mettono in evidenza il consenso rinnovato di lei all’epoca della rivelazione dell’amore, nel momento più alto e drammatico dell’incarnazione,
Maria partecipa, per la grazia dello Spirito “che la ha ricoperta con la sua ombra” al momento del primo annuncio ed ora la rende madre per sempre; partecipa alla generazione di quanti sono chiamati ad essere figli nel Figlio. E siamo tutti noi.
Comprendiamo così perché nel racconto della Pentecoste Maria è presente con gli apostoli e alcune donne, concordi nella preghiera, in attesa del dono che darà inizio alla sua maternità universale e al tempo della Chiesa (Atti 1). La presenza di Maria agli inizi della Chiesa ricalca quella dell’inizio della vicenda storica di Gesù.
Chi opera la nascita di Gesù e quella della Chiesa, la nascita alla luce di ciascuno di noi, è lo Spirito Santo nella presenza di Maria. Con delicatezza ma chiaramente, il vangelo di Luca dice ad ogni uomo, ad ogni donna, che la nuova alleanza “avviene” attraverso il sì e la presenza materna di Maria di Nazaret.
Perciò la Chiesa ci propone di contemplarla per favorire l’esperienza e l’intelligenza della fede in noi che di lei siamo figli, nel disegno di Dio su di lei e nella sua risposta attiva ad esso.
Maria sta davanti a noi, e nel cuore di ciascuno, come lo spazio che, nella libertà e nella responsabilità, si fa aurora, stella del mattino, orizzonte di partecipazione e di visibilità del Dio che è amore.
Perciò la veneriamo Immacolata mentre attendiamo la visita del Signore.