Assunzione di Maria – Anno C
(Ap 11,19; 12,1-6.10; Sal. 44; 1Cor 15,20-26; Lc 1,39-56)
Al centro della celebrazione c’è la figura e la vicenda personale di Maria di Nazaret, ma non da sola. Maria appare tutta inserita ed espressione della lunghissima storia dell’amore paterno di Dio per l’umanità, che comincia a manifestarsi nella creazione e nella promessa di redenzione, nel momento stesso del rifiuto drammatico dei primi uomini. Maria è il fiore di questa lunghissima storia. Lei dicono e a lei si aprono le pagine, tante, della Scrittura, tutte legate dal filo d’oro dell’Amore eterno e misericordioso. E lei la capisce come uno di noi e dice il suo sì ed esprime la sua gratitudine a nome di tutti noi.
Perciò non solo la sua festa, ma la nostra festa, la festa della nostra vocazione alla sua Assunzione.
Nel racconto del vangelo di Luca, Maria con il piccolo Gesù in sé – di cui ha preso coscienza nel giorno dell’annunciazione, perciò nei primi palpiti della maternità – compie il viaggio dal nord della Galilea al sud della Giudea, dal villaggio sconosciuto di Nazaret alla regione in cui si trova Gerusalemme, la città simbolo dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Lo stesso viaggio che Gesù adulto compirà all’inizio della sua vita pubblica. Maria sente profeticamente di dover indicare in se stessa che Dio ha in cuore ogni uomo e ogni donna, a cominciare dai piccoli come ella è, ai deboli come la parente Elisabetta. La grandezza di ogni creatura umana, il destino di ciascuno, sta nell’essere figlio di Dio, e perciò figlio suo come colui che non vede ancora ma porta nella sua gravidanza. Perciò Maria avverte dentro di sé la premura di andare da Elisabetta, certamente per aiutarla nell’ultimo periodo della gravidanza, ma soprattutto per mettere in comune l’intimo di sé, la sua trepidazione, la sua indicibile gioia, e le sue paure con una persona di cui non può dubitare, in cui Dio ha parlato e agito, che condivide la fede, che intende guardare e valutare le persone e quello che accade con l’occhio di Dio. Perciò si confida, manifestando la gioia e la trepidazione, la riconoscenza, senza chiudere ogni cosa nello scrigno silenzioso del proprio intimo. Nell’incontro, Maria si rende conto che Elisabetta ha una luce interiore e una maternità profetica, ha in sé un bambino non ancora nato ma vivo e capace di indicare in lei “la madre del mio Signore”.
Nel rapporto d’amore che nasce dalla comunione nella fede, Maria riceve da Elisabetta la propria identità e si sente libera di cantare la gioia, la riconoscenza, l’esultanza di tutta la creazione, tutto quello che prima teneva custodito nella propria timidezza di umile ragazza. Ora sa che in lei abita e cresce la verità che le è stata confermata da chi le dice parole misteriose ma corrispondenti alla realtà: “Benedetta tu fra le donne”, “Madre del mio Signore”, “Colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.
“La fede non è soltanto un’esperienza divina, ma profondamente umana, e come tale ha bisogno di essere condivisa e sostenuta” (Nicoletta Gatti, in SdP n. 448, p.155)
Molto spesso sbagliamo nel falso pudore che impedisce di condividere la fede! Bisogna imparare a condividere le espressioni di Elisabetta e ricordarle reciprocamente: “Benedetta tu tra le donne”, per far crescere la gratitudine per il dono della fede con cui Dio ci ha benedetti e amati personalmente; “Madre del mio Signore”, per ricordare costantemente la vocazione all’essere “madri” del Signore nell’accoglienza e nell’obbedienza alla Parola che genera Gesù nei cuori; “Colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore ha detto” con una scelta di vita nel Vangelo.
Questo permette di guardare a Maria come colei che introduce all’eternità di Dio dove oggi la contempliamo assunta.