SOLENNITA’ DI S. GENNARO
(Sap.3,1-9; Sal. 33; Ap.12,10-12; Gv.15,18-21.16,1-4)
Cogliamo oggi con gioia l’occasione, che non si verifica spesso, della coincidenza della festa del nostro Santo Patrono, San Gennaro, con la domenica.
La santità è di Dio. L’Antico Testamento rivendica l’attributo “Santo” come una solitudine del Signore. Anche se nel capitolo 19 del Levitico leggiamo: “Siate santi, perché io, il Signore Dio vostro, sono santo”, santa, in genere, è solo la solitudine di Dio. Anche noi, nel “Gloria” ripetiamo: “Tu solo sei santo…”. Ma Gesù ci parla della santità come dono di Dio alle sue creature, di Cristo alla Chiesa. Perciò essa ha guardato alle persone che hanno vissuto con fedeltà il Vangelo e ha avvertito che questi suoi figli, queste sue figlie hanno creduto tanto da partecipare alla santità di Dio. Già nelle Catacombe troviamo delle tombe, oggetto di particolare venerazione, gli “arcosoli” dove sono custoditi i resti di quanti sono stati fedeli al Signore fino al dono della propria vita. Gennaro visse questa fedeltà. Nel 305, durante la persecuzione di Diocleziano, andò a visitare i fratelli incarcerati e tutti furono uccisi nell’anfiteatro di Pozzuoli.
Martire significa testimone e il primo martire è Gesù, testimone dell’amore infinito di Dio. Chi muore per la fede è un testimone, perché in lui Cristo Risorto è presente, testimonia in lui la sua presenza di vita. Di fronte a persone morte per testimoniare la fede, come Policarpo, che aveva conosciuto Giovanni Evangelista, i fratelli decisero di ritrovarsi presso il loro sepolcro, per ringraziare della sua vita e della sua morte. È in questa memoria grata che veneriamo i santi e ricordiamo il loro martirio, sempre vivo e presente nella comunità cristiana. La loro morte è un dolore, ma Gesù aveva preannunciato che i suoi discepoli avrebbero percorso la sua stessa strada di sacrificio, di dono della vita. Nel martirio il cristiano risponde alla sua vocazione: essere fedele al Signore, costi quello che costi. La Chiesa non accusa i persecutori, ma prega per loro. Le persecuzioni nascono dall’atteggiamento intransigente del fondamentalismo: l’anno scorso sono stati uccisi più di 30 fra Vescovi e Sacerdoti e molte centinaia di cristiani di ogni condizione. La persecuzione si accanisce anche su persone che non si dichiarano esplicitamente operai del Vangelo, ma lo vivono secondo lo stile delle Beatitudini. Amano i poveri, hanno fame e sete di giustizia, sono misericordiosi, operatori di pace. Sono martiri, pur non portando né croci né sai, perché sono testimoni del Signore.
Poniamoci ora alcune domande di attualità. Innanzitutto come si può conciliare la fedeltà radicale al Vangelo col dialogo con il mondo. Oggi spesso emerge un atteggiamento apparentemente plausibile: chiudersi rigidamente all’interno delle proprie sicurezze, rassegnandosi allo scontro tra culture, tra civiltà. Ma nel Vangelo la fedeltà a Dio non è chiusura né separatezza. Giovanni ci dice che Gesù, prima di andare alla croce pregò così per i suoi discepoli: “Padre… non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal male”. Gesù è sempre aperto al dialogo. Raccomanda ai discepoli di professare apertamente la propria fede, anche di fronte ai tribunali, senza temere, perché lo Spirito suggerirà loro le parole. I martiri non si sono mai sottratti al dialogo. Lo leggiamo in tanti testi, negli Atti dei martiri del I secolo, nei resoconti dei processi. In loro non c’era tanto il desiderio di dare la vita quanto la volontà di proporre la Parola con umiltà e forza, fino al rischio della propria vita. Pietro, nella sua prima lettera esorta i fratelli a “dare ragione della speranza” che è in loro. I martiri cristiani sono sempre attenti a non perdere le occasioni di dialogo, sia con le persone semplici che con i propri giudici. Vogliono che si capisca che essi non potrebbero vivere senza i valori del Vangelo: testimoniarli è per loro più importante della propria vita. Essi sono convinti che l’obbedienza alla Parola dà una qualità di vita superiore a quella del mondo. I testimoni del Vangelo vivono un rispetto massimo per le leggi dello Stato cui appartengono, tuttavia l’appartenenza a Cristo resta il valore primario. Qui è la ragione del loro rifiuto categorico dell’idolatria. Testimonianza e dialogo coincidono, perché esso sviluppa la responsabilità verso il mondo in tutti i settori della convivenza umana. La fedeltà al Signore che dà la vita per tutti migliora la convivenza umana anche perché permette il dialogo. Il cristiano che cerca il dialogo nell’umiltà e nella fedeltà al Signore, riesce a comunicare il rispetto per l’altro, la stessa passione, che ha animato Gesù. Solo lì è la sua felicità.
Veniamo a Gennaro. La nostra tradizione religiosa gli ha dedicato tante immagini. Lo vediamo con il braccio alzato e la mano aperta. A volte per fermare la lava del Vesuvio. Ma Gennaro stende la mano sul suo popolo, non solo per preservarlo dal vulcano o dal colera. L’amore per la propria gente è esigenza del Vangelo. Nella situazione attuale, in cui la comunità cristiana è sempre più una minoranza, venerare Gennaro significa fare una scelta di resistenza etica in questa nostra città, che spesso guardiamo con tanta amarezza. Significa non rassegnarsi al modo corrente di comportarsi, neanche se corriamo il rischio di essere emarginati. Non attendere che le leggi vengano in nostro aiuto, assumiamo la solitudine, che viene dai nostri atteggiamenti, senza pensare che vi è tanta sproporzione tra quanto vorremmo ed il poco che possiamo realizzare. Siamo chiamati ad una scelta che è pre-politica. Scelgo il Signore, amo e servo perché Gesù lo ha fatto e mi sforzo di essere presente nella mia città, di non tirarmi indietro, ma invece di condividere, di camminare in silenzio sia pure nella ripugnanza e nella paura. Accogliere il fratello non come un altro che sia fuori di me, ma come me stesso. Solo così possiamo davvero essere testimoni, come il martire.
Gennaro martire sotto Diocleziano.
Quando i cristiani incominciarono ad esprimere la loro fede in Gesù, trovarono in ogni popolo e cultura la consuetudine del ricordo dei defunti in una pluralità di maniere familiari e sociali. Non le rinnegarono, rifiutando solo le incompatibilità con la fede nell’eternità. Man mano che organizzavano la loro vita di preghiera, i cristiani preferirono celebrare l’Eucarestia presso i luoghi di sepoltura. Meditando e cantando la speranza della vita futura, piuttosto che attardarsi nei lamenti rituali e nell’abbondanza di parole.
E sentirono di non doversi fermare al ricordo dei loro più cari, ma di dover trovarsi insieme come comunità più ampia di quella familiare, come Chiesa presso la tomba dei martiri. Così, dal secondo e terzo secolo, tutta la famiglia dei credenti si riuniva nel giorno del martirio di qualche fratello e sorella di fede, considerando quel giorno come il “dies natalis”, il giorno del compleanno.
Era per loro una luce affascinante, un ideale da proporsi e vivere.
Martire significa testimone. A cominciare da Cristo che nell’Apocalisse viene detto: “il testimone fedele” (Ap.1.5) e dai dodici apostoli. Ma ogni cristiano che confessi la fede fino alla morte testimonia l’appartenenza a Cristo e Cristo stesso testimonia in lui la verità del vangelo e della sua resurrezione.
Per questa vita e questa morte vissute in comunione tra il discepolo martire e il Maestro via, la comunità riunita in un luogo lo ricorda con un’attenzione particolare che è venerazione. Essi apparivano come espressione viva, testimonianza del vivere “con” il Signore amato, perciò verbi della vita di unità: convivere, condividere, compire, con morire. S. Agostino da una bellissima spiegazione di questa reciprocità:
“L’uomo ha riflettuto su quanto ha ricevuto dal Signore, ha guardato a tanti doni dell’Onnipotente che lo ha creato, che lo ha cercato quando si era perduto, che, ritrovatolo, gli ha concesso il perdono.
Che lo ha aiutato quando combatteva con le sue deboli forze, che non si sottrasse quando lo vide in pericolo, lo ha coronato vincitore e gli ha dato se stesso in premio.
Ha considerato tutto questo, ha esclamato e detto: “Che cosa restituirò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza” (Sal.115)
Qual è questo calice? È il calice amaro e salutare della passione. O beati coloro che bevono così questo calice. Videro la fine dei loro dolori e ricevettero gli onori!”
(Agostino, discorso 329)
Guardando a questi fratelli nella fede, i cristiani si sono esortati alla testimonianza di fedeltà a quanto è stato donato loro dalle generazioni precedenti, a cominciare dagli apostoli, coloro “che hanno visto il Signore”, e dalle prime comunità. Hanno avvertito come un desiderio di emulazione: “se questi e quelle, perché non io?” dirà ancora Agostino.
Da qui ha origine la devozione ai santi nella spiritualità cristiana. Testimone, “martire” in greco, è innanzitutto chi è unito a Cristo mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue nell’Eucarestia assieme ai fratelli di fede: perciò la più forte testimonianza è data dalla Chiesa quando è unita nella fede. Una unità conciliabile con la pluralità delle vie che conducono alla fede e la alimentano, nella costante attenzione alle verità essenziali:
“Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, agisce per mezzo di tutti e dimora in tutti” (Ef.4,5-6)
La certezza di fede condivisa e diventata decisione irrevocabile di chi vuole seguire Cristo, genera la libertà e la franchezza della confessione aperta della fede stessa.
E quando è espressa davanti agli uomini, in una contestazione pubblica o in un processo, diventa “testimonianza” viva, martirio, che è la radice della venerazione della comunità intera per i martiri. Perciò la Chiesa, fin dai primi tempi, ne custodisce la memoria, ne onora le reliquie, ne scrive la storia, li ammira come esempi, li venera come protettori.
È quello che, unendoci alle generazioni che risalgono al terzo secolo cristiano e alla persecuzione di Diocleziano, noi facciamo oggi dedicando la liturgia a S. Gennaro.
È una opportunità che viene donata ai credenti perché confidino nella sua intercessione, ma anche e soprattutto per riflettere sulla disposizione interiore al contenuto e alle esigenze della fede, sulle paure che possono paralizzare le decisioni e la radicalità della franchezza nelle parole e nelle scelte.
La luce affascinante del martirio diventa coscienza critica sul nostro cammino lento e preghiera per la speditezza dei nostri passi.