Solennità di Tutti i Santi – Anno C
(Ap 7,2-4.9-14; Sal. 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12)
Condividiamo la contemplazione, cui ci invita la liturgia.
Verso la fine del I secolo, Giovanni, l’unico sopravvissuto tra gli Apostoli, era nell’isola di Patmos, lontano dalle persecuzioni, ma in esilio. Tutti lo veneravano, lo chiamavano “il vegliardo” e andavano in pellegrinaggio da lui, per farsi raccontare l’amore di Dio. Erano passati forse 60 anni da quanto Gesù era scomparso dalla sua vista e, una domenica pomeriggio, egli viveva, nella preghiera, la sua grande nostalgia del Signore. Come abbiamo detto le scorse domeniche, pregare è desiderio di Dio per noi e di noi per Dio. In quel giorno, nella preghiera, appunto, Dio prende Giovanni in un rapimento di amore e gli mostra il Paradiso, quella realtà che tutto precede e tutti attende, dove è presente Gesù Risorto e asceso in cielo. Allora egli capisce una cosa fondamentale – apocalisse significa proprio rivelazione – e la rivela a noi, perché a tutti rimanga bene impressa. Nella sua visione non è colpito dalla tipologia del luogo, né dai dettagli di quanto gli accade, ma di quello che gli viene detto: Gesù è il testimone fedele dell’amore di Dio. La croce permette di dire che Dio è amore, amore gratuito, la condivisione dell’uomo con la realtà di Dio non è più avvolta nel mistero, ma si fa toccabile e percepibile. Questa visione rivela a Giovanni che Gesù è il testimone fedele di questo amore, al di là della morte. Egli attende i suoi nel Paradiso, attende tutti. Capiamo allora che la storia è cammino verso questa pace perché l’amore fedele di Dio non viene mai meno. Così la paura si dilegua, termina l’attesa, non dobbiamo più lasciarci esasperare dalla negatività delle circostanze perché la fedeltà di Dio ha la potenza dell’universalità dell’amore. L’amore divino per tutti è fedeltà a ciascuno di noi: nessuno è più solo anche se, come Giovanni a Patmos, deve attendere il compimento della promessa.
A volte i giorni ci sembrano insopportabili, perché attendiamo un compimento che non viene e ci scoraggiamo del non senso della vita che ci circonda. Ma proprio in questa situazione, Gesù, il Crocefisso Risorto, ci dice: io sono il testimone fedele dell’amore di Dio, l’inizio e la fine, il termine e la pienezza della vita. Giovanni capisce tutto questo e guarda il Paradiso. Non può coglierlo con i sensi, non può descriverlo, perché non appartiene all’ordine della nostra conoscenza, ma, come hanno fatto e faranno tanti poeti, cerca parole e colori per raccontarci questa realtà indicibile. Il Paradiso non è un luogo, tuttavia è abitato da “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”. Giovanni scrive perché i cristiani avvertano questa universalità.
Nel II secolo l’anonimo che scriveva a Diogneto avrebbe detto che i Cristiani non hanno patria, perché dovunque sono “come pellegrini… ogni terra straniera è patria per loro, ed ogni patria straniera”, non dividono i fratelli in vicini e lontani, perché ogni uomo è loro fratello. Per loro la fraternità non è una teoria, ma la testimonianza concreta dell’universalità dell’amore di Dio e la patria è là dove vivono quanti sono raggiunti dalla potenza dell’amore, il Paradiso. È la moltitudine contemplata da Giovanni. Non si tratta di un’unità collettiva, ma di un insieme di persone, e fra loro ve ne sono tante note a me, mio padre, mia madre, i miei fratelli, mio figlio. Tutti sono stati raggiunti dalla potenza dell’amore di Dio. Ci dice Agostino che così come nel giardino vi sono tanti fiori, così le chiamate sono infinite nella loro diversità, ma nessuno deve dubitare della propria autenticità.
Gesù sana le contraddizioni delle situazioni di sofferenza. Chiama beati i poveri, gli afflitti, i miti. La vocazione alla santità annulla le difficoltà, perché permette di viverle nell’amore di Dio. Tanto più oggi, in un momento in cui si cerca di esorcizzare il dolore, siamo chiamati ad essere profeti di queste beatitudini. Il tempo moderno ci chiama ad entrare nella contemplazione e poi a perderci nella folla, per impregnarla del divino, dividendo “con il prossimo l’onta, la fame, le percosse, le brevi gioie”.
Celebriamo così la festa dei Santi, la nostra vocazione alla santità.
La comunione dei santi è l’umanità confluita nell’unità secondo il modello eterno della Trinità: è la città futura, ma già fin d’ora in formazione, e che perciò tutti noi siamo chiamati ad edificare con la nostra vita.
È l’immagine della “moltitudine immensa” che, alla fine del tempo, sarà radunata in Dio, “in piedi davanti al trono e davanti all’agnello”, quando la Chiesa terrena, nata nel cenacolo di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, avrà terminato il tempo del passaggio e della crescita.
– C’è un legame strettissimo tra la nascita della Chiesa e lo Spirito Santo che perciò è sempre raffigurato come presenza visibile di Dio in quel momento storico con Maria e i Dodici. Lo Spirito è il legame, colui che “lega” il Padre e il Figlio nell’amore eterno della vita di Dio. Così la Chiesa, abitata dallo Spirito, è la realtà che lega l’umanità nell’amore: il superamento del confine tra l’io e il tu, l’unione degli uomini tra loro attraverso il dono di sé per amore, è l’incorporazione dell’umanità nel modo di vita che è proprio di Dio Trinità. Il limite di ciascuno è oltrepassato dallo Spirito. Per questo motivo la Chiesa non è per un settore, per un gruppo omogeneo in senso sociale, o culturale, o economico. La Chiesa deve essere cattolica, deve “radunare i figli di Dio che sono dispersi” (Gv.11,52). Ogni suo membro, consapevole e maturo, deve avere coscienza di dover essere aperto, con le braccia spalancate. I santi non sono prima di tutto eroi della bravura e della capacità, ma persone che si lasciano legare ai fratelli dallo Spirito.
– Come Cristo, per l’offerta di se stesso, “col suo proprio sangue entrò nel santuario una volta per tutti, avendo raggiunto una redenzione eterna” (Eb.9,12) e “si è assiso alla desta di Dio” (Eb.10,12), così i “suoi” discepoli, quelli che sono sue membra, uniti a Lui nella sua offerta, hanno parte con Lui nell’amore eterno di Dio.
E come Cristo, alla destra del Padre, è contemporaneamente sempre presente alla sua Chiesa, in mezzo a quelli che sono uniti nel suo nome (Mt.18,20), così quelli che sono suoi nell’eternità sono sempre presenti alla Chiesa nel tempo, ci sono vicini. Membra vive per sempre e membra presenti nella fatica della storia. Questa è l’altissima realtà della comunione dei santi.
I fratelli e le sorelle della patria ci fanno partecipi della loro visione di Dio, della loro preghiera, della loro esperienza, della loro comunione d’amore. E lo fanno incontrandoci in Gesù nell’Eucarestia, dove lo Spirito ci lega in un solo corpo.
La vera festività dei santi non è una solenne commemorazione storica o rituale, ma la stretta unità con loro nell’unità di Cristo, nel corpo di Cristo che è sull’altare.
Questa unità introduce nel rapporto stretto con gli apostoli, i martiri e tutti i santi, canonizzati e non, con tutti quelli che chiamiamo beati perché hanno creduto al Vangelo e sono morti nel Signore.
L’unità con loro non si ferma nelle loro persone, ma con il loro stesso aiuto ci introduce, quasi con naturalezza, nella loro stessa patria, che è l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Fino a quando non sarà raggiunta l’unità piena e finale per la quale il Signore ha pregato prima della passione,
E quella sarà la “moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”.
“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”
Un santo è una persona che ha creduto a questo annuncio, lo ha custodito con fedeltà, ed ora è nella vita di Dio, per sempre.
Oggi contempliamo la folla di quelli che hanno vissuto la fede nella loro esistenza umana, praticando le beatitudini del Vangelo: della povertà con umiltà di cuore, del piangere senza perdere la speranza, della mitezza nella rinuncia a vincere ad ogni costo. Ed ancora: della franchezza nell’esigere il diritto di libertà e di dignità di ogni uomo, avvertendo nell’intimo i morsi della fame e della sete della giustizia; del farsi carico della sofferenza e dei fallimenti, senza giudicare, ma guardando al Dio della misericordia; della limpidezza degli occhi e del cuore, senza strumentalizzare i rapporti ed opprimere l’innocenza; della passione per la pace, al di là di ogni interesse; dell’accettazione su di sé, a causa delle esigenze della Parola di Dio in se stessi e nella convivenza umana, della persecuzione esplicita e dell’emarginazione subdola ed elegante.
Questa folla di chiamati a testimoniare il Vangelo è custodita dal Signore Risorto con il sigillo – dice l’Apocalisse – che rende fedeli e perseveranti fino alla fine; questa “moltitudine immensa che nessuno poteva contare” è il popolo delle beatitudini. I primi sorretti dalla fede nel Dio delle Scritture e della promessa ai padri nella vicenda che diciamo dell’Antico Testamento; i secondi, la moltitudine che non si può contare, provenienti dal paganesimo, al di là di ogni appartenenza etnica e religiosa. Sono quelli a cui Cristo ha potuto rivolgere, per aver vissuto le beatitudini, le parole che Matteo riferisce: “Venite, benedetti dal Padre mio… perché avevo fame… avevo sete… ero nudo… ero malato… ero in carcere… l’avete fatto a me… ricevete in eredità il Regno” (Mt.25,34-40).
I santi sono le donne e gli uomini che hanno compiuto scelte diverse da quelle proposte e, a volte, pretese dalla logica mondana che punta a porre la beatitudine nella ricchezza, nel godere il più possibile, nel non avere fastidi, nel cercare spazi con la furbizia, nel puntare alla giustizia con la vendetta, nelle relazioni asettiche, nella compassione da lontano, con il conto corrente …
La santità è il capovolgimento di questa logica, accetta di dover vivere con rigore e semplicità, si gioca in una interiorità che ha come protagonisti Dio che parla nell’intimo e la coscienza del credente; perciò non si lamenta dell’incomprensione, ma la accetta senza deprimersi, non si confonde con il clamore, le opere straordinarie, i miracoli…Il santo è un discepolo di Gesù, sincero e pratico, la sua prima e profonda autenticità è l’amore del Maestro, la sua ambizione è imitarlo. La sua morte è “nascita”, come la Chiesa ha da sempre cantato dei martiri. Il santo permette al Risorto di compiere nel tempo la sua Pasqua, di realizzare quanto aveva promesso prima della passione: “quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv14,3). È il discepolo che va dietro al Maestro “fino alla fine”, perché Lui è il modello dell’essere figlio di Dio, ed è tramite dell’essere uniti a Dio come Lui.
“ Fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è”, dice Giovanni. Perciò i santi sono raffigurati con le palme tra le mani, come partecipi della gloria di Cristo Risorto.
Santità cristiana, tante strade, tanti modi, tutti diversi, unificati dall’amore di Dio e del prossimo, ciascuno con la modalità particolare della chiamata personale. Tutti si incontrano nello stesso Dio, tutti hanno la stessa umanità con volti diversi, perché Dio non si ripete mai. Tutti uniti dalla certezza di essere stati scelti ed amati “fin da prima della creazione del mondo per trovarci al suo cospetto santi e immacolati” (Ef.1,4), dice san Paolo. Così c’è la santità dei pastori, quella dei martiri, quella dei monaci e delle vergini, dei padri e delle madri, degli uomini e dei giovani, dei bambini dei malati, degli abili e dei diversamente abili, dei politici e degli economisti, degli educatori e dei medici…
Certamente la Chiesa dell’eternità è affollata di santi di cui non conosciamo il nome, perché chi muore in grazia di Dio è santo. Li guardiamo tutti insieme, uniti in una danza fraterna, nella fiducia di incontrarli e riconoscerli per nome; ci affidiamo alla loro esperienza di umanità per essere accompagnati dalla loro comune intercessione, sostenuti dalla speranza per il fatto che ci sono dati “come amici e modelli di vita”.
Oggi la celebrazione si riveste di nostalgia della santità, di desiderio di parteciparne, malgrado la nostra incapacità, per la potenza dell’amore di Dio.
La visione raccontata da Giovanni al capitolo 7 dell’Apocalisse invita alla contemplazione dell’azione di Dio alla fine della storia nel tempo per dare inizio alla storia nell’eternità.
Dio chiama alla fede una schiera di persone che vengono detti “servi del nostro Dio” e vengono segnati sulla fronte dal suo “sigillo”, segno della consacrazione, della appartenenza a Lui: il loro servizio sarà quello di mediazione per il progetto della salvezza universale che viene raffigurato profeticamente dalla “moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”; una moltitudine “in piedi”, nella posizione dei risorti, con in mano la palma dell’immortalità. È l’umanità pasquale, passata attraverso il mistero della croce del Signore, che appartiene a Dio per sempre. È il popolo di Dio, la sua famiglia umana immersa nel divino.
La liturgia invita a riconoscere i volti e le opere che la tradizione cristiana ci consegna, di quelli che in qualche modo sono appartenuti al Signore Gesù nella generosità della vita quotidiana in famiglia, nel lavoro, nella Chiesa e di quelli che sono stati vicini alla nostra stessa vita. Sono la moltitudine immensa di quanti hanno creduto e visto “quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente”. Il guardare dei santi all’Agnello, Gesù Cristo, per seguirlo nella condivisione della fede e dell’amore, è stato e continua ad essere partecipazione preziosa alla costruzione della città di Dio nell’eternità, in quella realtà che chiamiamo Paradiso.
Guardiamo con gratitudine a questa moltitudine che ci si propone come modello, come Vangelo possibile e vivibile oggi, come è stato e come sarà nel domani. Il loro è un servizio fraterno che conforta e sostiene il nostro cammino, perché hanno compiuto con i fatti l’itinerario spirituale ed etico di Gesù e sono stati giganti del Vangelo vissuto, come Benedetto e Francesco, come Gandhi e Madre Teresa. Seguaci ed imitatori di quel Gesù che “da ricco qual era si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà”. Hanno scelto e deciso con volontà resa forte più della debolezza umana dalla certezza nella potenza della Parola, hanno perseverato nell’impegno di restare poveri nello spirito davanti a Dio, custodendo la passione di essere strumento del suo amore per gli uomini. Così sono vissuti con cuore puro, unificato, non diviso, leggendo la realtà con l’occhio di Dio, nella convinzione che esiste una storia “altra”, che non è quella che nasce dal pensiero e dalle proposte del mondo. La mitezza, la misericordia, la pace, la giustizia, sono state perciò il loro programma di vita, gli aspetti della loro personalità nella luce delle beatitudini vissute umanamente e concretamente. Espressione luminosa del loro sì a Dio.
Guardando a questi grandi protagonisti dell’amore che libera ed è profezia di novità per tutta l’umanità, riconosciamo accanto ai volti noti della santità cristiana quello di tanti uomini e donne di ogni popolo e lingua, laici e consacrati, credenti e di altre convinzioni, del passato e di oggi. Essi dicono che, senza scegliere di diventare poveri di potere, di ricchezza, di se stessi, non si possono vivere impegni significativi per la giustizia e per la fraternità universali. Solo chi ogni giorno si allena per essere pronto al dono di sé per gli altri diventa concretamente vivo nell’amore e da questa disponibilità può scoprire la ricchezza che è negli altri. Vi sono povertà dei “ricchi” che potrebbero essere curate dalle ricchezze dei “poveri”, se si conoscessero, si stimassero nella loro dignità, si incontrassero, si toccassero. Per questo la santità cristiana non è separatezza, ma immersione nella relazione fraterna, non rende prigionieri dei conventi e delle sacrestie, ma spinge verso quella che papa Francesco chiama le “periferie esistenziali”.
“Cari amici, abbiamo questa bellezza! Andiamo per questo cammino con fiducia, con gioia. Un cristiano deve essere gioioso, con la gioia di avere tanti fratelli battezzati che camminano con lui; sostenuto dall’aiuto dei fratelli e delle sorelle che fanno questa stessa strada per andare al cielo; e anche con l’aiuto dei fratelli e delle sorelle che sono in cielo e pregano Gesù per noi. Avanti su questa strada con gioia!”
(Papa Francesco, 30/10/2013)