EPIFANIA – Anno C
(Is 60,1-6; Sal. 71; Ef 3,2-3.5-6; Mt 2,1-12)
Non ci soffermeremo oggi sul racconto di Matteo, che ha certamente radici storiche: nella Bibbia gli astrologi non sono mai stati considerati con simpatia e quindi il fatto è vero, proprio perché contro corrente. In seguito la devozione e il culto popolare hanno fatto sorgere un genere letterario intorno alla figura di Magi.
La festa di oggi ci dice che nell’Incarnazione si compie la promessa presente nell’Antico Testamento, promessa di salvezza per tutti i popoli. Abbiamo ascoltato le parole del profeta Isaia: “Cammineranno i popoli alla tua luce… I tuoi figli vengono da lontano… verranno a te i beni dei popoli… tutti verranno..”. Tutti gli uomini possono trovare Dio, come i Magi. Essi hanno visto la stella, allora si sono mossi, sono partiti dalla loro terra, aiutati, hanno trovato il Signore. Ciascuno di noi, nella sua storia personale, deve avere questi stessi atteggiamenti.
Da sempre l’uomo ha cercato Dio. Oggi sembra prevalere la ricerca scientifica, ma la ricerca di Dio è un dovere per quanti sono chiamati alla fede e vogliono scoprire il senso della realtà e della storia da un punto di verità e di luce, per vincere il dubbio e la disperazione, ma anche per superare l’atteggiamento mediocre del qualunquismo. Dobbiamo cercare Dio, perché oggi, nel mondo, c’è una grande attesa del divino.
Ma come cercare Dio?
Per noi che abbiamo il dono della fede è un dovere non fermarci mai, approfondire la nostra ricerca di lui, fino al giorno in cui lo contempleremo faccia a faccia. Non bisogna fermarsi nell’appagamento di quanto ci è stato insegnato, di quanto fin ora abbiamo capito. E neanche accontentarci della celebrazione dei riti, che può anche allontanare dalla verità di Dio. Non ritenere di avere trovato, ma sapere che c’è una luce, una stella quel “Lumen Cristi”, che celebriamo nella veglia pasquale. Nell’oscurità della fede questa luce è certezza che Dio si può trovare. Come dice Pascal, non lo cercheremmo se non lo possedessimo già in qualche modo. Dio è già presente nella nostra ricerca, la ricerca antica del Salmo 42: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…”. Per trovare Dio dobbiamo cercarlo.
Ma la certezza della presenza di Dio è diversa da quella della nostra esperienza sensibile: sono certo del marmo, perché lo tocco. Paolo VI diceva è impossibile trovare Dio allo stesso modo con cui troviamo una cosa. Egli non è reperibile nella certezza delle cose, proprio perché non è una cosa! Nulla di quanto diciamo di Dio può corrispondere alla sua realtà tutta intera. Ogni volta che crediamo di possederlo, ci sfugge. Diciamo che egli è giusto e buono e poi ci sembra ingiusto e vendicativo, diciamo che è misericordioso e ci appare crudele… Mai la ricerca di Dio è scontata. Egli è sempre oltre le nostre affermazioni, le nostre categorie mentali, le nostre conquiste, le nostre certezze. Nel capitolo 33 del libro dell’Esodo, Mosè, che pur aveva parlato con lui sul monte Sinai, chiede al Signore: “Mostrami il tuo volto”, però non riesce a vederlo che di spalle.
Ma allora, se non saremo mai appagati nella ricerca di Dio, come potremo trovarlo? Certamente non nell’eccezionale e nel meraviglioso, come oggi si crede troppo spesso. Il Vangelo di Matteo ci dice che ordinariamente Dio non agisce nel meraviglioso, ma nell’interiorità della nostra anima, nella fede, nell’amore, nella fedeltà alla Parola. Chi si sforza di custodire e cercare Dio con umiltà e fedeltà ne sperimenta la presenza. “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” dice Gesù al capitolo 14 del Vangelo di Giovanni, prima di congedarsi dai suoi. Noi non conosciamo Dio attraverso la lettura di libri e ancora meno attraverso le discussioni, ma solo attraverso l’amore. È un amore personale e intimo, che fa spazio alla luce dello Spirito Santo nella interiorità della coscienza, dove Dio non è conoscenza intellettuale, ma esperienza di fede. È la Sapienza di cui la Scrittura dice che “sa” Dio. È la via dell’amore. È quell’amore personale ed intimo che si esprime nell’amore fraterno: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, ci ha detto Gesù nel Vangelo di Matteo. La relazione umana, vissuta nella fede, permette al fratello di svelare Dio al fratello, perché egli lo ritrovi nel paradiso del suo cuore. È la via della fraternità, che tanti sperimentano con gioia.
Simone Weil, nel suo libro, “L’amore di Dio”, scrive: “La necessità, quaggiù, è la vibrazione del silenzio. La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore. E lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si separa in due, perché vediamo ormai l’universo da un punto situato fuori dello spazio”.
Preghiamo per quelli che cercano e per quanti nella fraternità hanno trovato Dio. La festa dell’Epifania ci dice che trovare Dio è possibile, è possibile metterci in comunione con l’adorazione dei Magi e di quanti nei secoli lo hanno cercato e lo hanno trovato.
Lasciamoci illuminare dalla stella, testimonianza del Dio che si è lasciato trovare.
Adoriamo e ringraziamo il Signore per averci fatti coscienti, nella fede, della chiamata di tutti i popoli alla sua casa.
Isaia vede da lontano, al di là delle capacità umane di organizzazione, e moltiplica le immagini per stampare nella memoria di chi lo ascolta e di chi lo legge l’annuncio dell’iniziativa di Dio:
“Cammineranno i popoli alla tua luce…
Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio.”
Matteo, nel racconto dell’episodio dei Magi, ha presente Isaia, vede quello che si attua in Gesù come un compimento delle promesse antiche e lo consegna alla memoria della Chiesa e dei singoli discepoli.
E la riflessione si fa subito chiara tra i cristiani. Come abbiamo ascoltato nella seconda lettura, Paolo, scrivendo agli Efesini nell’anno 53/54, poco dopo la vicenda storica di Gesù, dice:
“I Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, ad essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo”
Così come Paolo tutta la Chiesa, e noi oggi, siamo a conoscenza del “mistero”, cioè dell’azione di Dio che ci viene rivelata per grazia. Come lui i cristiani fanno l’esperienza che, quanto più si dona la luce ricevuta in dono, tanto più si comprende la ricchezza immensa e l’ampiezza sterminata dell’amore di Dio che, nella persona di Gesù, raggiunge tutti gli uomini, senza escludere alcuno. Apriamo il cuore alla ricchezza immensa del dono di Dio!
Ci viene donato un fiotto di luce anche sul mistero del rifiuto di Gerusalemme, la città del popolo chiamato per primo, nei confronti di quel Bambino, per cui i Magi sono venuti da lontano. Nella lettera ai Romani Paolo lo spiega così:
“L’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato”(Rm11,35)
La certezza della vittoria finale dell’Amore dona questa immagine bella di Israele che sta sulla soglia della casa di Dio e della storia per tenere aperta la porta, finché non siano entrati tutti i popoli. Come si svuota la mente di tutti i luoghi comuni, e la bocca di tutte le parole che sanno di pregiudizio e di separazione! Come si impara la gratitudine per questo compito di battistrada del regno che è il disegno di Israele!
La celebrazione dell’Epifania è un grande invito alla speranza.
Quelli che vengono da lontano appaiono, nella loro vita pagana, presenti al cuore di Qualcuno che li previene, li guida e li protegge… Qualcuno che, contemporaneamente domanda alla comunità di fede di tenere aperta la porta della casa comune per accogliere quanti provengono dalla lontananza, etnica, religiosa, culturale, economica… L’atteggiamento di chi accoglie – di ciascuno di noi – non dovrà apparire come una difesa arcigna delle proprie abitudini, ma quello cordiale e fiducioso di chi considera la diversità come arricchimento dell’unità. Non solo stando ad aspettare, ma facendosi incontro.
In questo senso, il tenere aperta la soglia, tipico di Israele, non basterà alla Chiesa che sente la forza delle parole di Gesù, nella parabola dell’invito alla cena:
“Esci per le strade e lungo le siepi, spingili ad entrare, perché la mia casa si riempia” (Lc.14,23)
E in quelle della lettera agli Ebrei:
“Usciamo anche noi dall’accampamento e andiamo verso di Lui” (Eb.13,13)
È un impegno per la comunità: non essere arroccati al passato, ma “uscire dall’accampamento”, così come Gesù è “uscito da Dio”. La Chiesa è chiamata ad incontrarsi con l’umanità.
C’è una nota carica di responsabilità per chi ha visto il Bambino, è stato cioè fatto cosciente della verità dell’Incarnazione: “non tornare da Erode”, ma fa ritorno al proprio paese “per un’altra strada”, significa non vivere ripiegati su se stessi, preoccupati del proprio io, ma assumere la novità dell’universalità: questa è infatti la via di Gesù.
È un atteggiamento teologico, che riguarda la natura della Chiesa. Essere popolo di Dio non deriva da un’appartenenza e non mira all’appartenenza, ma deriva dal sottoporsi insieme, nella diversità, alla luce che chiama e conduce i popoli – in fraternità – ad un’unica patria. E la Chiesa, cui pur siamo tanto riconoscenti, non è la patria verso cui siamo chiamati.
C’è un pellegrinaggio verso Gesù, che si è consegnato alla Chiesa, come per i Magi si era consegnato a Maria con cui lo trovarono. Ma c’è un pellegrinaggio della Chiesa verso i popoli, per donare Gesù, al cuore dell’uomo di oggi dove palpita una presenza misteriosa. Questo domanda di eliminare dal cuore quello che sa di privatezza, che ostacola la vastità immensa, la libertà dell’amore, la verità universale di Dio. Non c’è posto per l’individualismo di persone o di gruppo.
Imparare ad essere uomini e donne universali, perché Dio lo è. Così gioiremo ogni volta che incontreremo persone dal cuore puro, che cercano la verità, anche se non sono occidentali, o cristiani, o della nostra condizione sociale, del nostro gruppo…
Perché Dio è il Dio di tutti i popoli e i suoi figli devono essere “raggianti” e per questo “palpitare” e “dilatare” il cuore.
Questa è l’Epifania!
Noi possiamo conoscere qualcosa del mistero eterno di Dio, perché il Padre ce ne fa dono, al di là delle nostre capacità. Lui solo può farlo, con la sua Parola e con gli infinti modi e le infinite strade che il suo cuore paterno inventa. È quello che il Natale ci ha detto nel silenzio povero del presepe e che oggi vogliamo celebrare, nella lode e nella responsabilità, come realtà che riguarda tutti i popoli e tutte le età dell’uomo.
Epifania è la festa della riconoscenza e della gioia per la manifestazione di Dio. Tutta la Scrittura è come un grande “avvertimento” all’uomo, un invito a cogliere i segni della sua presenza e del suo agire, i gesti che nascono dal suo amore fedele, tutto quello che, alla attenzione stupita, appare come espressione di una potenza premurosa, sia nella delicatezza di un fiore, nel sorriso innocente di un bambino, sia nella forza della primavera, che riporta la vita e la luce, sia nella potenza della relazione di amore che può comunicare la vita.
Oggi ci viene detto che la manifestazione di Dio non è compiuta una volta per tutte. Se siamo credenti, aperti fiduciosamente alle sue infinite possibilità, ci rendiamo conto nella riconoscenza che c’è una manifestazione di Dio per ogni creatura, come Gesù adulto dirà a ciascuno dei primi discepoli, a quanti chiamerà per nome come Zaccheo e Maria di Magdala, umanamente sconvolta dalla morte, come il Risorto ordinerà di scrivere nell’Apocalisse: “Io sto alla porta e busso, se qualcuno mi apre, entrerò, cenerò con lui” (Ap.3,230). Dove c’è un cercatore di Dio, c’è un angolo per l’incontro con Lui nel modo più impensabile: talmente impensabile da oltrepassare il dato culturale per realizzarsi nel “cuore a cuore”. Il cuore “vede” per conoscere, abbiamo detto qualche giorno fa: per questo, chi crede con il cuore, vede. E, dal momento che i cuori sono tanti, le vie della manifestazione di Dio sono tante: il Signore ha una tenerezza personale per ciascuno e attende. Il pensiero del credente non deve essere tanto quello di valutare le strade percorse dal Signore, quasi a misurarne la capacità e l’opportunità, ma quello di mantenere il cuore libero, lasciandosi penetrare dalla luce di quanto Lui dice di sé.
Nel segno della stella, comprendiamo che Dio si accorge di chi lo cerca. Non sappiamo esattamente in che cosa consista la stella, se un segno astronomico o qualcosa di diverso. Ma sappiamo che, a coloro che lo cercano, Dio stesso riserva un qualche segnale particolare che guida fino a Gesù, trovato e adorato. Perciò il racconto dei Magi è come l’annuncio che, mentre fa certi di accoglienza di ciascuno e di amore per ciascuno da parte del Signore, suona come un invito rivolto a chi lo cerca alla disposizione intima per vivere il dono che gli viene porto.
Fa pensare, invece, il fatto che il segno non venga colto dalle persone che appaiono maggiormente sicure di sé, perché investite di potere politico o culturale o religioso, per il rischio di essere chiusi alla rivelazione e di sentirsi in grado di giudicare Dio stesso nel suo agire, anche se vivono più vicini ai luoghi della rivelazione, rispetto ai cercatori che vengono da lontano. La logica di Gesù, poi, si rivelerà all’opposto di quella originata dalla presunzione che accompagna il potere. Gesù dirà: “Chi serve per amore, come nell’esempio che vi ho dato, è mio discepolo”.
La liturgia dell’Epifania ci rinnova la certezza che il mistero di Dio, manifestato dal Bambino di Betlemme, riguarda tutti gli uomini. La coscienza di essere “popolo scelto da Dio” non significa che Dio è solo di un popolo! Il Signore, nella lunga storia che la Bibbia racconta, manifesta l’universalismo del suo amore, chiamando un pagano, come Ciro, il persiano, per liberare il suo popolo e permettergli di ritrovare la propria identità.
- Paolo ribadisce l’universalismo, martellando, nella lettera agli Efesini: “stessa eredità, stesso corpo, stessa promessa”.
È quello che la Chiesa è chiamata ad annunciare e testimoniare all’umanità in ogni epoca, il destino di ogni uomo a quello “scambio” che avviene nell’incontro con Gesù (e che, per dare concretezza, la liturgia antica cantava, con una parola inconsueta, “mirabile commercium”!): ricevere il dono della sua vita divina, facendogli dono della propria natura umana, con l’impegno dell’imitazione di Lui, fino al traguardo della partecipazione all’immortalità.
La liturgia ci fa domandare, con l’orazione finale, della messa, di “gustare il mistero”. Sì, chiediamo il “gusto” del mistero. Che la fede sia nel suo contenuto esperienza, dolcezza, “conoscenza per connaturalità”, come scriveva s. Tommaso d’Aquino. Allora ci sarà dato di comprendere perché Matteo parla di ritornare alla vita consueta “per altra strada”: infatti non sarà più possibile una vita come prima dell’incontro con Gesù, colui che manifesta l’Amore di Dio.
Ognuno degli evangelisti scrive nello stile suo proprio. Matteo ha un modo diverso da quello di Luca nel descrivere la verità storica dei fatti che racconta, ma l’uno e l’altro vogliono comunicare dati sicuri per sostenere la certezza di fede in Gesù per quanti lo leggeranno. Non raccontano una leggenda, ma la manifestazione a persone determinate, identificate, del popolo ebreo e del mondo e cultura pagana; persone rese disponibili, le prime attraverso le mille luci trasparite nei libri sacri delle Scritture, le seconde attraverso la scrittura cosmica delle stelle e delle galassie studiate a lungo.
“Andiamo dunque, vediamo questo avvenimento”, dicono i pastori in Luca, “Veniamo da oriente a Gerusalemme … siamo venuti ad adorarlo” i magi in Matteo. Due cammini che si incontrano e si fondono nella ricerca di Qualcuno di cui avevano presagito la verità nelle pagine del libro sacro e in quelle del creato. Nella coscienza di fede dei credenti c’è il senso umile della radicale incapacità umana di raggiungere la certezza di Dio. Ma c’è anche l’esperienza di quanto la Parola scritta e i fatti della vita siano “segnali”, “avvertimenti” che dicono gesti, manifestazioni di presenza, espressione di amore personale che Dio continua a donare a ciascuna sua creatura. Questa esperienza universale domanda di vincere le paure che assalgono il cuore quando ci si trova davanti a qualcosa che scombussola i ritmi di un’esistenza chiusa, e spinge a muoversi, come dicono i verbi: “andiamo”, “siamo venuti”. Non c’è fede, infatti, senza un cammino di ricerca, con i suoi ritmi, i suoi fallimenti, le sue ricorrenti oscurità mentali, le sue contraddizioni morali. Fa riflettere, in particolare, nel racconto della ricerca dei magi, quanto Matteo annota del turbamento di Erode, dei capi dei sacerdoti, degli scribi, di tutta la città; tutta gente sicura del proprio rango e in grado di dare risposte esatte, ma che non cammina, non si emoziona, ha paura di farlo. Fa riflettere il fatto che il Signore trovi accoglienza nel cuore di gente illetterata che vive alla periferia della città e non nei palazzi dell’indifferenza. E che trovi docilità in chi ha interiormente sollecitato a distogliere lo sguardo dalla ricerca di Dio nel cielo stellato per abbassarlo con umiltà nell’insignificanza di Betlemme.
Matteo presenta la confessione di fede dei magi come frutto di una “sapienza” pagana, tante volte guardata con paura e polemica dai credenti, in grado di accompagnare all’incontro con Cristo, nonostante se stessa. La loro prontezza, il coraggio nel vincere l’indifferenza di quanti avrebbero dovuto e potuto sapere, lo dice con chiarezza. Matteo presenta i magi come “pellegrini dell’assoluto”, in cammino costante verso la Parola e la luce di Dio, che non può mai essere raggiunta pienamente sulla terra, fin quando non si giunge alla “grandissima gioia” del traguardo.
Riflettiamo. L’incontro con Gesù è possibile alla luce degli “avvertimenti” che egli dona, e di sé e della sua verità, in modo del tutto gratuito e attraverso le innumerevoli strade che propone nella sua imprevedibilità, da cui nascono innumerevoli cammini personali di ricerca e di incontro nel cuore umano. Non è tanto importante indagare e valutare la modalità delle sue manifestazioni, ma lo è tenere il cuore libero, aperto alla luce, non tradire la coscienza, lasciarsi guidare dalla verità cercandola appassionatamente, disposti a soffrire per conservarla e restarle fedeli.
Noi non sappiamo esattamente che cosa sia la stella, il momento in cui viene accesa per noi. Ma sappiamo che il Signore la accende per la gente in ricerca. Anche la stella ha le sue intermittenze, ma la memoria della gioia e della pace sperimentate nel momento di decisione a compiere il cammino della fede, si trasforma in radice di nuove e più mature scelte, a cominciare da quella di non rinunciare a proseguire, come i magi, anche dopo l’incontro deludente con la freddezza dei competenti e la smaccata ipocrisia di Erode. Fin quando non giunga il momento della “gioia grandissima”, quando “videro il bambino con sua madre, si prostrarono e lo adorarono”.
Il Gesù che si manifesta all’umanità nell’Epifania è il Gesù che non nasconde la propria identità, ma la propone nella trasparenza del bambino, e noi nella liturgia lo accogliamo con fede riconoscente. Egli è colui che è venuto, che viene e che verrà. L’eterno questuante dell’ospitalità del cuore umano.
“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap.3,20).