NATALE DEL SIGNORE – Anno C
(Is.52.7-10; Sal.97; Eb.1,1-6; Gv.1,1-18)
Mentre la Messa della notte e dell’aurora ci hanno mostrato l’evento della nascita del Signore a Betlemme e l’adorazione dei pastori, in questa terza liturgia, quella del giorno, il prologo del Vangelo di Giovanni ci aiuta alla riflessione sul mistero dell’Incarnazione del Figlio e ci invita ad accoglierlo nelle nostre vite.
“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio; tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nella tenebre, ma le tenebre non la hanno accolta”.
Credere, accogliere, riconoscere: sono termini ricorrenti in questo testo, parole che riguardano tutti noi ed oggi ci sollecitano alla riflessione. In principio era il Verbo, il pensiero di Dio, la sua sapienza, la sua luce, che è la vita di ogni creatura. Così il Natale ci incita a partire da Dio, che è il Principio il senso di ogni realtà, a guardare le cose non solo dall’angolazione umana, ma da quella di Dio. Per dare una risposta ai problemi sul senso della vita, del tempo, sul significato dei nostri sforzi, del nostro lavoro – problemi che si ripropongono nei momenti lieti come in quelli dell’angoscia – il Vangelo di Giovanni ci indica il Principio, la relazione trinitaria dell’amore, il Padre che è benevolenza e fedeltà, il Figlio che è pienezza di grazia e di verità, lo Spirito che esprime la loro relazione di amore e che è insieme propensione al rivelarsi di Dio alla sua gente. “Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo”, così ripete Giovanni nella sua prima lettera. Perciò dobbiamo imparare nella riconoscenza che egli fa dono alla creazione della sua benevolenza, della sua fedeltà, dobbiamo ricordare costantemente – come dice ancora la lettera – che non solo siamo chiamati ma “siamo realmente” figli di Dio! Lo siamo perchè il Figlio ha assunto la carne umana nella sua interezza: qui è la grandezza e la verità di questo Bambino, che è motivo di stupore non solo per i pastori e per i magi, ma per ciascuno di noi.
Invece il mondo sembra andare in direzione diversa, quella della lontananza, della solitudine, dell’indifferenza verso Dio. “Venne tra la sua gente, ma i suoi non lo hanno accolto”. Dio, il Verbo, viene perché egli è benevolenza e fedeltà, la sua vittoria è porre la propria tenda nella città degli uomini, anche se essi non sono disponibili all’accoglienza. Ma l’uomo che lo accoglie sperimenta una diversa qualità della vita, un’avventura che lo conduce di pienezza in pienezza: “da lui tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”. Guardiamo a questo Bambino nella concretezza della sua verità tutta umana, guardiamo questa nascita che porta Dio nel mondo, ma guardiamola non con le sdolcinature del sentimentalismo. Che essa sia come il portale che introduce ognuno di noi nella patria della paternità di Dio, nella vita intesa e spesa come dono. Il Bambino piccolo e impotente nella sua culla è il Salvatore, da questa sua piccolezza ed impotenza vengono a noi vita, speranza e una forza ben maggiore di quella che ci vuole piegare e costringere. La forza del dono gratuito, dell’amore senza riserve. Il Bambino ci annunzia che noi posiamo vivere con pace e con gioia nel mondo perché non siamo “del mondo”. Anche oggi il Natale ci invita ad una visione ottimistica della vita. I credenti possono essere provati nella speranza, nella fiducia della vittoria del bene: incombono le malattie, le sofferenze fisiche e morali, la logica del mercato sembra tutto distruggere a livello individuale e sociale. Eppure questo Bambino ci rivela la logica divina delle Beatitudini, ci convince che l’amore senza limiti di Dio dà un senso anche agli avvenimenti più duri. Ripete a noi le parole che un giorno il Signore disse a Mosè: “Non temere, io sono con te!”
Guardiamo al Bambino, che abbiamo deposto sotto il Libro della Parola di Dio (è forse un segno ancora più incisivo di quello del presepe) e facciamoci aiutare dalle parole di Agostino: “Bello è il Verbo nato nella culla, bello perché mentre era bambino i cieli hanno parlato, gli angeli hanno intessuto le sue lodi. Bello perché la stella ha condotto i Magi dall’Oriente. Bello in cielo e in terra, bello nel seno e fra le braccia dei suoi genitori, bello nei miracoli e nei supplizi, bello nell’invitare alla vita, nel morire e nel risorgere, bello nella croce, nel sepolcro e nel cielo”.
Lasciamoci riempire da questa bellezza! Buon Natale!
Nella tradizione cristiana del Natale ha un posto particolare l’esperienza di Francesco di Assisi, di cui testimonia Tommaso da Celano nella “vita seconda”:
“Più di qualsiasi altra festa Francesco celebrava con gioia indescrivibile il Natale. Diceva che questa era la festa della fede, perché in questo giorno Dio è diventato un bambinello e ha succhiato il latte come tutti gli altri bambini”
Entriamo insieme in questa sensibilità particolare di Francesco di Assisi per l’umanità di Cristo, che fu lo strumento, per tutta la Chiesa, alla comprensione del mistero che ha il suo culmine nella vittoria sulla morte con la resurrezione e l’ascensione, ma ha la sua strada nell’amore inerme, nell’umiltà, nella bontà semplice e concreta. Francesco è colui che scopre la luce della rivelazione di Dio nel Bambino Gesù. In lui l’Eterno è davvero diventato “Emmanuele”, Dio con noi da cui non ci separa alcuna barriera, come annuncia il Prologo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”.
Come bambino che succhia il latte della mamma, si è fatto tanto vicino che possiamo dargli del tu tranquillamente e sentirci autorizzati ad accedere al suo cuore direttamente, senza mediazioni. Ognuno di noi, guardando questo Bambino, può ripetere a sé stesso “Sono figlio, sono figlia di Dio!”
Dio viene nel Bambino con il massimo dell’inermità, senza potenza: non intende conquistare dall’esterno, ma solo guadagnare dall’interno, con la via del cuore. Così vince in noi la tentazione di presuntuosità e di supremazia. Il suo essere “figlio”, del Padre nell’eternità, dell’umanità nella storia, per chi lo accoglie con riconoscenza è un’indicazione di come possiamo essere figli.
Egli dirà: “Se non vi convertirete e diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt.18,3)
E’ la cosa decisiva del cristianesimo, che il Natale annuncia. La Chiesa lo ha capito fin dai primi secoli. I Padri mostrano il Dio fatto uomo come colui che assume, nella maniera più concreta, la nostra situazione di limite, per correggerla e guarirla:
“Vita per natura, egli prese un corpo soggetto alla corruzione al fine di distruggere in esso la potenza della morte e di trasformarla nella vita” (Cirillo di Alessandria, omelia su Luca 5)
Qui, nella interiorità in cui si rivela, è la fonte della gioia di cui il Natale sempre ci parla, e la sensazione di vita che si rinvigorisce nella speranza.
“A quanti lo accolsero…”
Il Vangelo di Giovanni ci parla, fuori del racconto dei Sinottici, ma alla luce della meditazione del mistero, dell’umiltà di Dio. Il Padre invia il Figlio non come un’imposizione, ma come un mendicante che aspetta alla porta di ciascuno. Questo è il suo atteggiamento definitivo: nell’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, Egli ci ripete: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap.3,20)
Desiderio e pazienza sono il tessuto di questa presenza nella storia, amore e croce, fino a quando tutti gli uomini saranno entrati nel suo amore. E’ molto importante per noi comprenderlo oggi, in un momento in cui tutti soffriamo il morso della contraddizione, del rifiuto di Dio da parte di tanti. Siamo i figli di un Dio mendicante in una società in cui di Dio non si può parlare.
Per essere portatori della luce del Natale, i cristiani non potranno sottrarsi al capire concretamente le parole di Paolo ai Colossesi: “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col.1,24)
E occorre imparare l’atteggiamento dell’accoglienza in una reciprocità vera, che ama il Dio che ci accoglie in coloro che attendono di essere accolti. Dice ancora Tommaso da Celano di Francesco: “Abbracciava con tenerezze e trasporto le immagini che rappresentavano Gesù Bambino e pronunciava pieno di compassione parole dolci. Come i pargoli”
Era il Natale 1223 a Greccio. Nella sua maturità cristiana Francesco lasciava il dono del presepe per insegnarci la via dell’accoglienza umile dei fratelli, a cominciare dai più deboli.
Oggi l’accoglienza dei bambini non è facile, fa problema. Tante sono le ragioni del restringersi dello spazio dell’accoglienza, e tante sono le possibilità di annunciarla. L’attesa del Signore va nella direzione di rendere libera la nostra libertà, libera dalle paure e dai condizionamenti che ingigantiscono le difficoltà oggettive ad accogliere la vita. Bisogna lavorare sul piano culturale per vincere le resistenze mentali, su quello economico perché un bambino non sia un problema finanziario, su quello logistico perché l’assurdo della grotta rimandi alla necessità di case degne di accogliere la vita. Tante coppie oggi non hanno spazio. E forse le attrattive della malavita sarebbero minori se si uscisse dai vicoli e dai quartieri degradati della periferia.
Accostiamoci al Bambino con il cuore che si allarga, facciamoci accoglienti della vita e donatori di vita.
Ma tutto nella gioia di sapere che il Signore desidera che arriviamo a Lui per il solo amore del nostro cuore.
Buon Natale.
Il mistero sta in questo breve versetto:
“E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”
Il Bambino di Betlemme che, come ogni bambino che nasce, ci commuove, in modo particolare per il fatto che l’unico posto disponibile per lui è una mangiatoia, questo bambino è da Dio, è il “Figlio unigenito che viene dal Padre”
È il Verbo del vangelo di Giovanni, che sta fin da principio. Non è l’inizio di una storia terrena, ma l’eternità abissale della realtà di Dio che si fa storia.
Per entrare nel Natale occorre non separare il divino dall’umano, riconoscere in quel bambino che viene alla luce il Figlio di Dio eterno. L’atteggiamento che i protagonisti dell’avvenimento – raccontato dagli evangelisti Matteo e Luca – ci propongono è l’adorazione, la riflessione nel silenzio, la deduzione nella responsabilità della vita, l’accoglienza nell’affetto.
La divinità non è creabile. Perciò Gesù, quel Bambino, sta all’inizio, è nel “principio”. E’ il Dio con noi, spinto da una ragione che sta nel suo amore eterno, di cui noi non siamo in grado di indagare le ragioni. Il suo è un venire tra gli uomini non per imparare dall’uomo quali sono i desideri e i bisogni dell’uomo, ma per dire all’uomo qual è la sua verità, mostrandola in se stesso, che è l’uomo secondo il pensiero e il cuore di Dio: Egli porta in sé l’immagine dell’uomo creato a somiglianza di Dio. Così comprendiamo che Dio ci fa dono del mistero di questo Bambino per dirci, nell’amore immenso che lo fa Padre di tenerezza per tutti e per ciascuno, che cosa siamo e a che cosa dobbiamo aspirare per crescere nella somiglianza di Lui. Non siamo chiamati a giudicare il mistero, che è contemporaneamente presenza da accogliere e trascendenza irraggiungibile, e perciò ha una sua difficoltà per la nostra razionalità. L’atteggiamento che siamo chiamati a far nostro è quello che spinge a farsi alunni di Dio, scolari della sua Parola, senza scorciatoie, assumendo le conseguenze dell’incarnazione.
Quello che può apparire contraddittorio, l’unità tra Dio e il Bambino, tra il trascendente e il limite, è cantato dalla liturgia bizantina:
“La vergine partorisce oggi colui che è sovrasostanziale, e la terra offre all’inaccessibile la grotta
… perché per noi è nato piccolo bimbo, il Dio che è prima dei secoli.”
(Romano il Melode)
“eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne tra i suoi e i suoi non lo hanno accolto”
C’è una discrezione che sembra addirittura timidezza nel venire di Dio nel bambino inerme e fragile. E’ la proposta all’uomo di abituarsi a vivere con Dio nell’assicurazione di un Dio che vuole abituarsi ad abitare nell’uomo (Ireneo).
E’ lo stile di chi non abusa della forza, non si impone con l’evidenza che cancella ogni dubbio, ma accetta il rischio della libertà. Lo svelamento di chi si fida dell’uomo perché “nell’uomo c’è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito” (Benedetto XVI)
Perciò, per i cristiani, Natale dice l’importanza dell’attenzione all’uomo, nella sua concretezza, senza rifiutarne i fremiti. E l’importanza di contestare una società che impedisce la speranza, che non crede nelle nuove possibilità, che si arrocca nelle cose consolidate, che non ha il coraggio di donare la vita, che si rifiuta di fare spazio ai giovani, che si ostina a guardare con sospetto il diverso, fino alla bestemmia di augurare un Natale “bianco”!
Il Bambino, dal momento dell’apertura degli occhi nelle braccia di Maria, ha uno sguardo che è testimoniato da tutto il vangelo fino a quello su Pietro durante la passione e su Tommaso dopo la resurrezione, uno sguardo senza paragoni, che rinnova la vita.
Natale è l’annuncio di questo mistero che diventa presenza familiare, senza di cui non riusciamo ad essere più uomini.
“A quanti però lo hanno accolto … a quanti credono nel suo nome…”
Penso ai due amici che, dopo venti anni di matrimonio e uno di crisi profonda che li ha indotti alla separazione, sono oggi alla messa del Papa, per ricominciare la loro vita di uniti nella luce dello guardo del Bambino e nel calore della famiglia della Chiesa.
Perché lo sguardo del Bambino non è un fatto del passato, ma continua da quella notte a Betlemme, perché tutti possiamo fare l’esperienza dell’affetto di Dio.
Nella liturgia solenne del Natale la Chiesa invita la comunità alla contemplazione del mistero di Dio che ha annunziato questa notte e questa mattina.
Mistero dell’infinito abbassamento del Verbo, pensiero e Parola eterna di Dio, inviato nel mondo. Nel prologo del suo vangelo, Giovanni parla della natura personale di Lui, presente presso Dio nell’atto della creazione, Parola
che rivela all’uomo la verità. “Verità e grazia” sono le due parole che dicono la sua opera: verità di Dio in sé e dell’uomo in Dio; grazia di amore donato da Dio e coscienza dell’altissima dignità dell’uomo, perché “a quanti l’hanno accolto, ha donato il potere di diventare figli di Dio”.
La preghiera nella fede contempla il dialogo, la comunione tra il Padre e il Figlio eterno, nell’appartenenza reciproca della vita trinitaria, e la liturgia sembra quasi non voler privilegiare le pagine dense e suscitatrici di commossa tenerezza che Luca ci ha donato a mezzanotte e all’alba. Così siamo invitati ad entrare, come è proprio della preghiera contemplativa, nella profondità di luce che sta dietro e dentro quello che accade nella nascita di Gesù.
Un itinerario a tappe quello del Verbo di Dio che discende per attuare il pensiero eterno nella storia e preparare l’accoglienza nel cuore dell’uomo. Perciò i segnali di Lui, dal tempo dei patriarchi, nelle voci alte e drammatiche dei profeti, nella santità dei giusti, nella limpidezza del sì di Maria, fino al momento che celebriamo: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo noi” e fino alla fondazione della Chiesa, per aiutare l’umanità nell’accoglienza, nello stupore e nella riconoscenza per quanto quella profondità rivela.
E, ancora, Giovanni parla del ritorno nel seno del Padre come un compimento, “pieno di grazia e di verità”, portando con sé quanti gli hanno creduto. Un ritorno che non parla più all’imperfetto “era” del tempo prima dell’incarnazione, ma al presente “è” del presente eterno di Dio. Così la nostra carne, come Giovanni indica l’umanità, abitata da Lui, Parola che vive, arriva ad essere, essa stessa e per sempre Parola “rivolta verso il Padre”.
Il pensiero filosofico non poteva accettare la debolezza dell’umanità di Gesù, quello religioso, anche di ispirazione biblica, riteneva l’umanità indegna di ospitare in sé la divinità. Giovanni, contro tutti, afferma che il Verbo divenne carne, nella natura umana che aveva creato, e dicendo: “Venne ad abitare in mezzo a noi”, afferma il rapporto stabile con la sua creatura, con le stesse parole di Lui: “Sono io che ti parlo” (Gv.4.25). Questo lo scopo dell’incarnazione.
La certezza del Vangelo non deriva dalla sicurezza della dottrina, né da bravura nel comportamento morale e dalla forza di organizzazione, ma dall’aver sperimentato il divino presente nell’umano di Gesù Cristo. Un’esperienza condivisa con gente semplice, segnata dalla povertà e dalla complessità della storia personale, gente umile, ma aperta all’azione di Dio, gente anonima come i pastori di Betlemme o quanti lo seguiranno, Simone e Maddalena, Zaccheo e la samaritana; gente che si è incontrata con uno sguardo che rivela l’umano di ciascuno; gente a cui è stato dato di leggere i segni reali di una vita diversa in un uomo che si poteva vedere e toccare, in un tempo e uno spazio definiti; gente che, nella propria esperienza donata ad ogni uomo, permette alla speranza di uscire dal dubbio e diventare certezza.
“Giustamente – dice Benedetto XVI – nessuno può avere la verità”. E’ la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente”! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Dio è diventato così uomo che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo”.