FESTA DELLA SANTA FAMIGLIA – Anno C
(1Sam 1,20-22,24-28; Sal.83; 1Gv 3,1-2,21-24; Lc 2,41-52)
Nel tempo del Natale siamo chiamati a meditare sull’infanzia di Gesù. Lo faremo il primo e il 6 gennaio. Oggi, invece, di fronte alle parole di Gesù adolescente, riflettiamo il modo della sua convivenza familiare.
Egli ha coscienza di essere il Figlio del Padre celeste, non di Giuseppe: la sua vita deve percorrere il cammino della passione, perché non ha altro fine che la gloria del Padre. L’espressione che sintetizza tutta questa pagina di Luca è: “Devo essere nella casa del Padre mio”. Più della traduzione usuale – “devo occuparmi delle cose del Padre mio” – queste parole indicano che il Padre celeste è il senso e la fonte di tutta la sua vita. Egli è al di sopra di ogni affetto umano. Giuseppe e Maria non riescono a comprendere: non si tratta di una incomprensione nel senso psicologico e affettivo del termine, ma dell’impossibilità di capire, di uno smarrimento. Nel descrivere questo episodio Luca usa i termini che userà per parlare della passione del Signore: salire verso Gerusalemme, attendere tre giorni. Anche i profeti si erano espressi così. Forse Maria e Giuseppe avranno pensato a come difendere il figlio da una prospettiva di dolore. Ma a dodici anni i ragazzi ebrei assumevano una autonoma personalità religiosa, come accade da noi con la Cresima. Gesù è già Maestro e Profeta: l’unico suo bene è il Padre. Nella casa di Nazaret lo manifesterà con la sottomissione e l’amore a Maria e a Giuseppe, ma la sua vera priorità è Dio. Anche in questo rapportarsi a loro nel rispetto e nell’obbedienza filiale, egli continua a dirci che Dio si riserva un diritto di priorità su di lui.
Così è anche nella famiglia cristiana: il Signore chiama le persone singolarmente, una ad una. Ciascuno gli può rispondere solo nell’autonomia della sua coscienza individuale. Luca ci fa capire chiaramente che Maria maturava il suo rapporto con il Figlio nel silenzio e nella preghiera: diventava così capace di essere la sua vera discepola, partecipe della sua passione e della sua croce. “Conservava tutte queste cose nel suo cuore”. La persona di Giuseppe, invece, è avvolta nel silenzio. Non sappiamo nulla di lui. Per condividere la crescita di questo Figlio misterioso in cui, come dice Paolo nella lettera ai Colossesi, abita la pienezza della divinità, egli si fa sempre più silenzioso. Capisce di poterlo aiutare solo così, accogliendo il mistero nel silenzio. Il segreto di questa famiglia è la relazione che ciascuno di loro ha con Dio: essa solo rende possibile la relazione fra le persone. Giuseppe e Maria sono premurosi fino all’angoscia, ma devono accogliere il non riuscire a comprendere. Rendono possibile, così, a Gesù di manifestare Dio.
Impariamo da loro. L’uomo è il tu di Dio: per poter essere dell’altro egli deve avere un rapporto prioritario con Dio, che lo alimenta con il suo amore. Dio ha voluto che l’umanità si strutturasse nella famiglia a partire dalla creazione. E non solo. Il Figlio si fa uomo all’interno di una famiglia. In essa si realizza la vocazione dell’uomo ad essere immagine dell’Amore Trinitario di Dio. Come disse Emmanuel Mounier, il filosofo del personalismo, parafrasando Cartesio: “Amo. Ergo sum”! Ma l’amore è rispetto dell’autonomia dell’altro, del suo libero sì alla vocazione cui il Signore lo chiama. Rispetto vissuto nel silenzio, come ci insegnano Maria e Giuseppe.
Nel clima attuale di individualismo e di consumismo la famiglia sembra perdere senso e valore e tanti ne abbandonano l’idea di amore fedele e fecondo. Ne conosciamo le conseguenze nella cronaca dolorosa di ogni giorno. Anche qui, a Napoli, dove da sempre è stata un valore, in ogni condizione sociale essa sembra non avere più futuro, se ci limitiamo ad una prospettiva solo umana. Ma da credenti abbiamo fede nella presenza di Dio nella storia: egli si è incarnato nella concretezza della negatività e del peccato, in cui è immersa la nostra storia, ma ci ha dato il Figlio all’interno della famiglia, si è fatto membro di una famiglia. Qui è la casa della possibilità, della creatività dell’amore, se scegliamo di vivere con lui e come lui.
Ora si rinnoveranno le promesse del matrimonio: che non sia solo un ritrovare l’emozione dell’essere sposi. Il sentimento è bello, ma che il vostro cuore sia aperto a tutte le famiglie, anche a quelle che sono nelle lacrime e nel lutto, come nell’Iran devastato dal terremoto. Aperto a quanti, anche qui tra noi, non possono vivere la tenerezza dell’amore per la vedovanza o per la piaga dell’amore ferito. Guardiamo insieme al bene dell’umanità: la vocazione all’amore è impegno al servizio verso l’umanità tutta.
Questo brano è la conclusione dei racconti dell’infanzia di Gesù nel Vangelo di Luca. L’evangelista lo racconta con molta attenzione; si capisce che non vuole sottolineate tanto l’episodio del pellegrinaggio, che avviene “secondo l’usanza”, ma piuttosto il momento di difficoltà – comprensibile nell’esperienza umana di ogni papà e mamma – attraverso il quale si viene raggiunti da insegnamenti più profondi. Nello smarrirsi di Gesù, ormai alla soglia dell’adolescenza, c’è lo smarrimento dei genitori e il loro successivo ritrovarsi sul piano della vita e della fede maturate nella prova. Questa sofferenza vissuta e superata può dar luce a tanti di noi: è di grande attualità.
Al cuore del brano c’è la prima parola di Gesù nel Vangelo di Luca, l’unica del tempo dell’infanzia: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”
Forse la versione più letterale – secondo gli studiosi – dovrebbe essere: “Io debbo essere in ciò che è di mio Padre” o “Devo abitare nella casa del Padre”
Come se, con questa immagine della casa, avesse voluto dire a Maria e a Giuseppe: “La mia casa è il pensiero del Padre, non dovete cercarmi secondo i vostri pensieri, ma attraverso quello che il Padre pensa di me.” Anche il profeta Isaia aveva detto: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore” (Is.55,8)
Gesù invita perciò i genitori a cercare la sua identità in Dio. E Luca annota: “Ma essi non compresero le sue parole”
Tuttavia non si ferma a questa difficoltà di comprensione di Maria e Giuseppe, e subito aggiunge: “Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore”, mostrando Maria come discepola del suo figlio, donna di fede che, nella riflessione fiduciosa, attende dal Signore la luce su quanto l’umano non riesce a percepire del progetto di Dio sul figlio.
In realtà la prima impressione di Maria sarà stata quella che ogni madre prova davanti alle decisioni inaspettate di un figlio adolescente, che paiono un’anticipazione precipitosa dell’autonomia: la sensazione di contraddizione aspra con il proprio compito di responsabilità e di educazione, che può dare tanta angoscia.
Ma l’affermazione di Gesù non è tesa ad ottenere l’indipendenza perché Luca prosegue dicendo: “Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso”
Maria e Giuseppe non si fermarono di fronte all’impossibilità di comprendere, ma, pur interrogandosi, furono obbedienti a quanto veniva loro chiesto.
Nella riflessione che nasceva in lei dal faticoso “serbare nel cuore” quanto era avvenuto, Maria era condotta alla comprensione che la verità del figlio non aveva origine nel suo cuore di Madre, ma in Dio. Capì che era più importante essere discepola che madre.
C’è un mistero nell’alterità dell’altro, anche dell’altro che è il figlio nato da noi. Maria e Giuseppe, – per quanto preparati da doni straordinari – devono assoggettarsi al passaggio faticoso dall’incomprensione all’accoglienza del progetto di Dio sulla persona amata, pur continuando a vivere la propria coscienza dei diritti e dei doveri.
Questo assoggettamento verrà domandato ripetutamente da Gesù adulto a tutti i discepoli, e Luca ne parlerà chiaramente. Maria e Giuseppe appaiono modelli con la loro esperienza: dobbiamo farne memoria ed essere grati, specialmente in tutti i momenti in cui ci viene domandato di imparare ad andare avanti senza capire, capendo di non poter comprendere.
Perché questa fatica appartiene non raramente a tutte le nostre relazioni, nella vita religiosa come in quella di coppia, ma è particolarmente dolorosa e difficile nella relazione con i figli che crescono.
Ricordando, pochi giorni fa, a quanti collaborano al servizio per la Chiesa universale, il suo incontro di quest’anno con le famiglie a Valencia, il Papa spiegava questa fatica:
“Il bambino ha bisogno di attenzione amorosa. Ciò significa: dobbiamo dargli qualcosa del nostro tempo, del tempo della nostra vita. Ma proprio questa essenziale “materia prima” della vita – il tempo – sembra scarseggiare sempre più. Il tempo che abbiamo a disposizione basta appena per la propria vita; come potremmo cederlo, darlo a qualcun altro? Avere tempo e donare tempo – è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare se stessi, a perdersi per trovare se stessi.
A questo problema si aggiunge il calcolo difficile: di quali norme siamo debitori al bambino, perché segua la via giusta e in che modo dobbiamo, nel fare ciò, rispettare la sua libertà? Il problema è divenuto così difficile anche perché non siamo più sicuri delle norme da trasmettere, perché non sappiamo più quale sia l’uso giusto della libertà, quale il modo giusto di vivere, che cosa sia moralmente doveroso e che cosa invece inammissibile”.
Maria che “serbava tutte queste cose nel suo cuore” sta davanti a noi come luce. Domandiamo a lei e a Giuseppe, che hanno vissuto nell’esperienza familiare smarrimento e fedeltà, di essere presenti accanto a noi e di sostenere il cammino delle nostre famiglie.
Il passo del vangelo di Luca che abbiamo ascoltato, narra un episodio che tutti conosciamo e ricordiamo nella preghiera del rosario: è denso di insegnamenti profondi che toccano la vita di ciascuno di noi e della famiglia che Dio ci dona e ci spingono a chiedere la grazia di renderci conto del passaggio costante della Provvidenza del Signore nelle nostre vite, anche nei momenti in cui ci sembra tacere. Quello che Gesù dice nel tempio al termine del racconto dell’infanzia, introduce bene all’attenzione con cui occorre ascoltare e meditare quello che dirà durante il ministero pubblico.
– “perché ci hai fatto questo?” è la domanda cresciuta nell’angoscia. La fede di Maria e Giuseppe – che pure hanno incontrato Dio direttamente – non è esentata dall’oscurità e dal dubbio, lo stupore per quello che accade è come uno sgomento che ostacola l’accettazione di quanto viene proposto.
– “perché mi cercavate?” la domanda è già una risposta. Nella vita di fede non si può chiedere a Dio “perché?”. E’ una domanda che c’è sempre nei momenti della prova: la ha ripetuta anche Gesù sulla croce. Qui Egli vuole solo ricordare che il suo posto è nelle cose – nella casa – del Padre suo. Da adulto per questo rifiuterà di andare dalla madre che lo cercava (Lc.8,19-21). Il nome di Dio è Padre: per la prima volta, nel vangelo di Luca, Una rivelazione. L’intelligenza straordinaria di Gesù e la sapienza dell’insegnamento sono la conseguenza dell’origine da Dio, del suo rapporto filiale, unico, con Dio Padre. Quando Egli entra nella nostra vita e ci domanda l’umiltà della mente nel vivere qualcosa nell’oscurità, il Figlio ci invita a metterci nelle mani sue, il Padre che è nel cielo
– “devo”, è pronunciato per la prima volta e sarà poi ripetuto molte volte per affermare che la sua esistenza è pensata solo e pienamente nell’unità con il Padre, con la sua volontà. Si intravede qualcosa del mistero della persona di Gesù Cristo e della sua missione. Perciò dirà: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Lc.10,22). In Maria e Giuseppe Luca vuole cogliere e ribadire l’inadeguatezza della creatura, sia pure preparata da Dio, davanti al mistero di Gesù. L’accoglienza del mistero richiede umiltà della mente e meditazione, perché Dio stesso riveli all’uomo, in crescita continua di ricerca e di sottomissione, la profondità del suo essere Amore, nell’alterità e nella vicinanza, nell’inaccessibilità e nella tenerezza. Scrive Giovanni:
“Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato” (1Gv.3,23)
Il racconto di Luca ci mette davanti alla necessità di riscoprire i rapporti nel matrimonio e nella famiglia. Non facciamo di questa festa una “devozione”, ma una meditazione sulla realtà della famiglia all’interno della Chiesa.
Ancora oggi è avvertita l’esigenza di scuotersi dall’oppressione durata per millenni: quella dell’uomo sulla donna. E’ più che giusto per ogni donna, per essere quello che il Creatore ha voluto. E, tuttavia, si comincia a scoprire che questa liberazione non può andare contro l’identità femminile che Giovanni Paolo II chiamava “genio”, il saper prendere il posto dell’altro, il condurre il figlio all’Altro, che è Dio. E’ un compito grandioso, che non si improvvisa ed è di ogni moglie e madre. E’ la capacità di spostarsi dall’altra parte, sapendo offrire al bene dell’unità la fatica di uscire dalla preoccupazione di se stessa, dal privilegio della propria persona, per annullarsi nell’altro. Nella patologia del nostro tempo proprio l’uomo, che sembrava esaltato nel maschilismo, appare demotivato, come senza identità e sembra crescere la sensazione che le donne vadano avanti e l’uomo resti sempre indietro. Bisogna assumere la responsabilità di sostenersi a vicenda, la capacità di realizzare il proprio io nel rapporto con l’altro. Così ci si dice, ci si spiega come un io che ama. L’amore infatti non può essere ridotto al trasporto affettivo. Deve arrivare, con un incessante dinamismo, ad essere oggettivo, come nella famiglia di Nazaret. Amare è volere il bene dell’altro, e questo libera, non lega. Ma bisogna ammirare ed amare la differenza dell’altro, rinunciando a sé e suscitando nell’altro la fine di ogni residuo di patriarcato maschilista.
Questo, scrive Benedetto XVI, rende “capaci dell’altro”, possibile solo se l’altro vive dentro di me e ci si libera dalla “perversione” del possesso.
La pagina di Luca mostra con chiarezza la realtà di persone libere che si amano. Libere perché tutti e tre sono appassionati cercatori di Dio. Maria e Giuseppe che, passando attraverso la sensazione angosciosa dello smarrimento del ragazzo, devono farsi alunni di lui che, nella fede, sanno essere il Verbo, la Sapienza. E Gesù, cercatore appassionato della casa del Padre, incantato dall’apprendere le sue cose, quelle che parlano di Lui, deve vivere il suo sì eterno nella storia, sottoponendosi alla gradualità: “Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso”.
E’ una realtà che si fa fatica a comprendere, ma il significato più autentico della famiglia e della casa è quello di essere luoghi dove, nella serenità e nella dolcezza di affetti intensi e sobri, si deve, prima di tutto, cercare Dio, quel Dio che è la casa e la fonte dell’amore.
Questa è la pagina con cui Luca termina il vangelo dell’infanzia del Signore. Il punto culmine nel racconto sta nei vv. 48 e 49, là dove l’evangelista parla di Maria e Giuseppe “stupiti”. Lo stupore è ben motivato con quello che è accaduto e che, al di là di ogni comprensione, ha generato angoscia e indotto al rimprovero.
Il fatto che Maria possa aver rimproverato Gesù anche dopo le grazie di luce che aveva ricevuto, mostra che la relazione di lui con il Padre le rimanesse misteriosa, perché la fede, anche quando è profonda e perseverante, è sempre impari davanti alla realtà misteriosa di Dio – che perciò filosofia e teologia dicono “trascendente”, al di sopra della capacità conoscitiva dell’intelligenza dell’uomo. Il testo del Vangelo sembra contrapporre la domanda: “Perché ci hai fatto questo?” alla risposta: “Perché mi cercavate?” e “Non sapevate?”, che fa concludere con l’annotazione: “Ma essi non compresero”.
“Non sapete che devo essere a casa del Padre mio?”. E’ la prima parola di Gesù nel vangelo di Luca e per la prima volta Dio è chiamato “Padre”. La traduzione – dicono gli studiosi del testo – permette di leggere: “devo essere nelle cose” oppure “devo essere a casa del Padre mio”. Il contesto in cui si svolge il dialogo è il tempio. Casa della Parola annunciata e fatta propria dai credenti, “casa di orazione” (Lc.19,45). Questo sta a dire che la casa di Dio è l’ambiente in cui si è “a casa”, la casa dove non sono tanto il culto e le tradizioni a prevalere, ma il “fare le cose di Dio”, portare avanti la verità e la grazia della relazione con lui. Gesù può spiegare la Parola perché ascolta sempre il Padre, abita “a casa” di lui e perciò ne realizza l’opera (Gv.5,36). Dicendo “Padre mio” svela la sua verità di Figlio di Dio, la sua relazione unica con Lui.
Davanti al mistero della persona di Gesù, Luca sottolinea l’incomprensione dei genitori. Vuole portare chi legge alla meditazione del mistero che traspare nel racconto. Nessuna rivelazione di angeli può togliere l’Alterità di Dio, la novità che egli porta: “Nessuno sa chi è il Padre se non il Figlio” (Lc.10,22). Perciò. mentre il ragazzo Gesù “cresceva in sapienza, età e grazia, davanti a Dio e agli uomini”, Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. E’ un invito a non enfatizzare le proprie attese che nascono in cuore a motivo dei legami di sangue, a non farle diventare assoluti, pur nella loro verità di amore che desidera il bene. Invito a non considerare il bene dando per scontato il proprio desiderio. Invito a crescere, custodi del mistero
Allora si può capire Nazaret, dopo il ritorno, la casa umana dove Gesù “stava sottomesso” come ogni figlio che vive il quarto comandamento. Dopo aver fatto conoscere la sua indipendenza dalla famiglia umana perché intento a dipendere fondamentalmente solo da Dio, Gesù vive a lungo un’esistenza normale fino all’inizio della vita pubblica. E Maria torna d essere la credente perfetta, che accoglie, approfondisce, mette insieme tutti gli eventi e le parole che li accompagnano. Anche lei cresceva. Anche i genitori crescono.
Quanta luce per le nostre famiglie!
Dal brano del Vangelo emerge quanto Gesù abbia amato e privilegiato la famiglia, scegliendola per nascere e vivendo con i genitori. La tensione primaria ad amarsi, compiendo il progetto di Dio che vi si andava svelando. Quella di Nazaret è la famiglia dove la Parola di Dio ha il primato assoluto. Perciò la sua regola è l’amore reciproco tra i suoi membri.
Al tempo della vita pubblica, Gesù moltiplicherà con affetto i gesti di amicizia per la famiglia dove gli sposi si amano, i bambini ricevono la vita e diventano uomini. E, tuttavia, Gesù non fa della famiglia un assoluto, una gabbia giustificata dall’appartenenza affettiva, ma la vuole soggetta alle esigenze superiori di Dio nella coscienza di ciascuno, che possono essere diverse da quello che siamo soliti pensare. Il Signore infatti può chiamare ad essere cooperatori nella formazione di una più ampia “famiglia” umana, dove tutti possono essere per l’altro fratello, sorella e madre (Lc.8,21). Non solo la chiamata, che l’esperienza cristiana può testimoniare, alla verginità consacrata o il celibato per il sevizio della comunità a tempo pieno, ma anche a vivere la propria realtà familiare come segno e strumento di promozione della comunione delle famiglie in un territorio, nella parrocchia, nelle istituzioni, nella città. E’ così che mentre nella fede scoprono la chiamata ad essere “chiesa domestica”, “ecclesiola”, dicevano i primi cristiani, si aprono per le famiglie cristiane le porte dell’incontro con l’umanità che non è estranea, ma appartiene loro per connaturalezza, per solidarietà, per partecipazione allo stesso corpo sociale e allo stesso corpo mistico di Cristo.
La casa dove Gesù abita è la casa di Dio, che significa la casa della famiglia umana riunita nella pace.