III DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At. 5,27-32.40-41; Sal. 29; Ap. 5,11-14; Gv. 21,1-19)
La liturgia di questa domenica, la terza di Pasqua, è l’ultima in cui leggiamo di un’apparizione del Risorto. Si tratta del capitolo finale del quarto Vangelo, il capitolo 21, che è stato scritto in un secondo momento, dopo il passo, che, nel capitolo 20, chiude chiaramente il racconto di Giovanni.
In questo capitolo troviamo un’altissima tensione di fede e di amore, strutturata come in un polittico, con proposte di fede, che hanno ciascuna scansioni diverse, anche se tra loro complementari. I discepoli, dopo la Pasqua, si ritrovano di nuovo insieme nella pesca, sul lago di Tiberiade. Nella notte non pescano nulla, ma, all’alba, per invito del Signore, gettano di nuovo le reti e prendono molti pesci. Prima non avevano riconosciuto Gesù, ma ora “il discepolo che Gesù amava” capisce e dice a Pietro: “È il Signore!”. Giovanni è stato il discepolo più vicino a Gesù e a Maria fino alla croce e questo gli dà il dono di una particolare chiaroveggenza per riconoscere ed indicare il Risorto. Egli è libero dalla preoccupazione di sé perché ama; nel momento della passione non è fuggito e ora può riconoscere il Maestro. Giovanni ama e perciò è attento a Pietro, che è subito convinto dalle sue parole e corre incontro al Risorto.
Questa considerazione ci spinge ad una prima riflessione. Chi ama arriva prima al nocciolo della verità ed è di aiuto al cammino degli altri, sia nella fede che nell’amore. Lo constatiamo tante volte nel cammino della Chiesa. Francesco di Assisi convinse la gerarchia ecclesiastica della necessità di un rinnovamento. Caterina da Siena, una donna umile, spinse il Papa a ritornare da Avignone a Roma. Oggi Teresa di Calcutta ci insegna il primato dell’amore. La parola “carisma”, di cui spesso si abusa, viene dalla parola greca “charis” che significa grazia, dono gratuito. Carisma è appunto il dono che il Signore fa ad alcuni perché aiutino tutta la Chiesa, a cominciare da chi ha compiti istituzionali. Guardiamo la pagina del Vangelo: tutti i discepoli arrivano a riva con la barca, ma Giovanni li anticipa con l’intensità del suo amore, che gli fa riconoscere il Signore.
La seconda riflessione riguarda la pesca, abbondante, accompagnata dal gesto eucaristico di Gesù, che dividerà i pesci e il pane con i discepoli. Nel commentare questo passo, S. Ireneo, nel secondo secolo, sottolinea che questi pesci rappresentano tutta l’umanità, perché il Vangelo ci dice che erano 153 e tale è il numero delle specie di pesci conosciute in quell’epoca. Leggiamo ancora che, malgrado l’abbondanza della pesca la rete “non si strappò”. Giovanni, al capitolo 19 dice che “non fu strappata” neanche la tunica di Cristo, dopo che i suoi carnefici lo spogliarono, prima di inchiodarlo sulla croce. Questa unità senza strappi è il compito del Risorto, che vuole tutta l’umanità unita nella famiglia della sua Chiesa. Sappiamo che purtroppo storicamente questo non è avvenuto, ma la Chiesa ha ugualmente come compito la tensione ad un’unità che raccolga l’intera umanità. Come i discepoli che avevano pescato inutilmente per tutta la notte, la Chiesa può divenire capace di unità nel nome di Cristo Risorto.
Infine la terza riflessione riguarda la missione che Gesù affida a Pietro e, attraverso di lui, a tutti i discepoli. Solo se fra noi c’è l’amore e la sua presenza di Risorto, Gesù può affidarci il compito ricevuto dal Padre: radunare l’umanità nel suo amore. Questo dono ci è dato attraverso la triplice confessione di fede di Pietro, che, ci dice Agostino, corrisponde al triplice rinnegamento. La testimonianza della sua voce sarà ora un impegno di amore, così come in precedenza era stata espressione di timore. La Chiesa, e in lei ciascuno di noi, impara così che ogni ministero, ogni insegnamento della Parola, deve nascere dalla nostra relazione di amore con Gesù. “Se mi ami, pasci i miei agnelli”.
Giovanni aveva chiuso il suo Vangelo con il capitolo 20. Forse, ormai vegliardo, con questo ultimo capitolo ha voluto insegnarci in maniera ancora più intensa, qualcosa del modo di amare di Gesù, del suo stile, della sua arte di amare. Amare per Gesù è innanzitutto prendere l’iniziativa, amare per primo, ed egli lo fa in maniera concreta e premurosa, dando da mangiare a persone avvilite per una pesca infruttuosa e incapaci di riconoscerlo. L’altra caratteristica del modo di amare di Gesù è l’attenzione alla dignità delle persone. La persona amata da Gesù non è solo aiutata da lui, ma anche sollevata, perché acquisti piena fiducia nella sua capacità di ricominciare. I discepoli, incontrati sul lago, sono tutti importanti per lui: egli mangia i pesci pescati da loro, perché vuole valorizzare l’impegno positivo di ciascuno di noi.
Ma il Vangelo ci dice anche che Gesù vince il torto che Pietro gli aveva fatto con un supplemento di amore. Perciò, nella continuità del suo amore, gli chiede “Mi ami tu?”. Se il suo dialogo potesse tradursi in un monologo, Gesù direbbe: “Pietro, tu mi hai rinnegato tre volte. Ma io voglio innanzitutto valorizzarti come uomo, permettendoti di pescare. Poi voglio condividere con te il poco che abbiamo, accendendo anche il fuoco per te. Solo dopo ti chiedo se mi ami e ti affido tutto ciò che è mio, do a te l’umanità che il Padre mi ha affidato. E se saprò che davvero mi ami, ti farò condividere la mia stessa via, ti farò compagno della mia croce”.
Kierkegard, il pensatore cristiano – non cattolico – vissuto il secolo scorso in Danimarca, sottolinea come l’amore di Cristo per Pietro fu senza limiti e come in quell’amore egli ci dice in che modo ama ciascuno di noi. Gesù non rimprovera Pietro per il suo rinnegamento, non gli chiede un segno di pentimento. Lo ama per quello che è, nella concretezza della sua umanità. Non rompe l’amicizia con lui, attendendo che diventi altro, ma è con la sua amicizia che lo fa diventare altro! Solo l’amico aiuta chi sbaglia, anche se l’offeso è stato proprio lui. L’amore di Cristo ci insegna come dobbiamo amare l’uomo che vediamo, l’amico che ci è vicino.
Abbiamo tanto da imparare!
A commento di questa pagina del Vangelo, Agostino così scriveva:
Pietro “ebbe timore di patire ciò che Cristo soffrì.
Ma ora non c‘era da temere. Vedeva vivente nella carne colui che aveva visto appeso al legno.
Risorgendo, Cristo fece sparire il timore della morte e, poiché aveva tolto il timore della morte, a ragione interpellava l’amore di Pietro.
Il timore aveva rinnegato tre volte, tre volte confessò l’amore.
Triplice rinnegamento: il rifiuto della verità;
triplice confessione: l‘affermarsi dell’amore.”
(Agostino: Discorso 141,3)
Seguiamo il testo per cogliere lo stile del Risorto nella “riabilitazione” di Pietro.
In piena libertà di movimento e modalità di presenza, Egli raggiunge gli apostoli, incapaci di prendere decisioni. Erano sette. All’arrivo sull’approdo, trovano un pasto preparato: un fuoco acceso, la brace, il pesce, il pane.
Pietro, nella notte della passione, si era unito al gruppo che cerava Gesù per arrestarlo, aveva sostato accanto al fuoco per scaldarsi (Gv.18,18.25). Ora è invitato ad unirsi a Gesù per condividere un altro fuoco e il pasto preparato da Lui. Un clima di premura, di tenerezza, come dicesse: “Venite, asciugatevi un po’, riposatevi, rifocillatevi”. È l’inizio della riabilitazione di Pietro è l’insegnamento che la parola che salva ha bisogno di essere donata in un clima di amore, di reciprocità per suscitare il ritorno: l’amore viene prima della Parola, crea lo spazio adatto all’ascolto. Questo amore concreto fa scattare, nel cuore dei sette discepoli presenti, l’uscita dall’insicurezza con il riconoscere il Signore e l’atteggiamento della docilità che lascia spazio.
In questo clima Gesù parla a Pietro. Per tre volte gli chiede di impegnarsi ad amarlo più di quanto ami i discepoli compagni. E Pietro risponde il suo sì senza dubbi, con certezza ed umiltà, memore del suo rinnegamento: i primi cristiani ricordavano che il volto di Pietro era segnato, quasi solcato, dalle lacrime del suo pentimento. Al Signore che gli fa domande con il verbo “agapèo” – che indica l’amore senza riserve, tipico di Dio in sé, nella sua vita di relazione nella Trinità – Pietro risponde con il verbo “filéo”, che indica l’amore di amicizia nella sua accezione umana, un amore che attende la reciprocità. Gesù invita Pietro alla dimensione alta dell’amore Pietro risponde con la sua misura limitata. È come se Gesù gli dicesse: “un giorno tu mi hai rinnegato … adesso sei proprio sicuro del tuo rapporto con me?”. Pietro è reso umile dalla memoria della sua debolezza, lascia definitivamente la presunzione che più volte il vangelo registra, affida la sua sincerità al Signore: “Tu sai che ti voglio bene!”. L’amore che Gesù gli manifesta è ora la sicurezza sua di poter corrispondere all’amore. Scopre che il suo amore sincero è l’amore stesso di Dio in sé! Perciò non cerca più in se stesso il fondamento dell’amore, che non scaturisce da sé, ma dal Risorto che lo ama. Ed è sicuro di amare.
Questo il passo interiore di Pietro, la sua conversione, la sua liberazione dalla preoccupazione psicologica e sentimentale, che tante volte lo aveva spinto nella relazione con Gesù. E questo è il passo anche per noi che spesso ci interroghiamo sulla sincerità della fede nel Signore e dell’amore per lui… Dobbiamo imparare ad amare dentro la certezza che Dio ci ama al di là delle nostre incapacità di risposte e di coerenza e in questa certezza far nascere in maniera autentica le relazioni umane che ci riguardano.
E Gesù gli affida il compito di “aver cura”, di “pascere”, l’impegno di vivere quanto aveva detto di sé in riferimento agli uomini: “Io sono venuto perché abbiano la vita e la abbiano in abbondanza” (Gv.10,10). Una fiducia senza limiti che raggiungerà il suo culmine nella condivisione della morte in croce, come indicano le parole sul futuro di Pietro. Da giovane era stato generoso fino alla presunzione, ma era arrivato a rinnegarlo. Ora quel tempo è finito. Ora la coscienza dell’errore lo ha portato a non rifiutare più la sapienza della croce, che prima lo scandalizzava. Ora è pronto a vivere la missione del “buon pastore” fino alle conseguenze più radicali. Verrà il tempo in cui gli sarà chiesto di dare la vita per la comunità su di una croce, a Roma. Senza presunzioni, nell’umiltà del desiderio della crocifissione con la testa in basso, come dice la tradizione.
Come quella di Gesù, la morte di Pietro sarà glorificazione di Dio nella donazione di amore, fino alla morte. E questo sarà il compimento dell’essere discepolo, di quell’essere del Signore che era cominciato tre anni prima con il “seguimi”, dolce ed irresistibile, e che ora si rinnova in senso personale ed esigente: “tu seguimi”. E lui lo farà in modo deciso come affermerà più tardi, dicendo: “Bisogna obbedire a Dio, invece che agli uomini” (At. 5,29).
Riflettiamo sul fatto che, per ogni credente, seguire il Signore è più grande delle funzioni che si hanno, per quanto grandi esse siano. L’essere seguaci di Gesù dovrà essere sempre la prima preoccupazione per un cristiano. Il partire e il rimanere, l’essere attivi e il sostare hanno il medesimo valore per lui.
Con la pagina del vangelo di Giovanni si chiude nella liturgia il racconto delle manifestazioni del Risorto ai suoi discepoli più intimi. La ricchezza e i colori dei particolari ne fanno un dono prezioso per la comunità dei credenti in ogni tempo e in ogni circostanza.
Le domande che il Signore rivolge a Pietro ripetutamente sul suo amore per Lui, la tenerezza con cui prepara qualcosa, un po’ di brace, un po’ di pane e di pesce abbrustoliti da consumare per rifocillarsi dopo l’umidità della notte, sono gli atteggiamenti concreti con i quali il Maestro insegna che soltanto chi, prendendo l’iniziativa, previene l’altro con atti di amore e gesti concreti, può permettersi poi di chiedere un ritorno di amore. Questo insegnamento dovrà essere una regola costante nella vita della Chiesa.
I discepoli non appaiono più tutti insieme: sono sette quelli che hanno deciso di ritornare al loro vecchio lavoro, forse perché dovranno sperimentare la verità della presenza del Signore nella quotidianità della vita umana ordinaria che si presenta con le sue esigenze e fatiche anche quando non si può godere della presenza di tutto il gruppo, quando l’impegno appare sterile, quando è ancora l’alba nella luce incerta che non favorisce la prontezza nel decidere. Il discepolo deve sapere che il Maestro può chiedergli di sentirsi responsabile di annunciare e testimoniare il Vangelo nella fatica della solitudine, senza sostegni cui appoggiarsi. Anche questo non dovrà essere dimenticato.
È proprio in questa incertezza che il Risorto si manifesta con il segno della pesca prodigiosa che ha il suo culmine nella gioia del grido del discepolo amato: “È il Signore!”, consegnato alla comunità perché lo custodisca con certezza. L’identità del vero discepolo è data non da quello che sente e fa per il Maestro, ma innanzitutto da quello che il Maestro fa per lui. È la sicurezza interiore di chi è aperto alla verità di una presenza e la sperimenta continuamente nella guida, nell’incoraggiamento, nella premura per quanto è necessario all’esistenza. La presenza su cui si può poggiare il capo con fiducia, come all’ultima cena prima della morte: “È il Signore!”.
In questo racconto c’è tutta la vita della Chiesa, che è il luogo, l’ambiente della presenza del Risorto che rimane per essere riconosciuto e seguito dai suoi.
La manifestazione del Signore si conclude con il pasto del pesce appena pescato, insieme a quello preparato da Lui in precedenza a cui Egli li chiama: “Venite a mangiare”, e li invita con gesti che sono tipici della celebrazione dell’Eucaristia e richiamano ad essa.
Nell’Eucaristia non siamo noi ad ospitare il Signore, ma è Lui che prepara una mensa e fa il dono immenso di essere suoi commensali. È il suo luogo, il suo sacramento, è Lui che la presiede ed è da Lui che la riceviamo, ascoltiamo le parole “Venite e mangiate … si avvicinò, prese il pane e lo diede loro”. La fede nel Signore veramente risorto è strettamente legata all’Eucaristia, che è l’alimento che la fa crescere, la sorgente della forza per la testimonianza che non soccombe a incertezze e paure.
La liturgia di questa domenica pasquale evidenzia, nella prima lettura, la testimonianza di una comunità appassionata e coraggiosa, che si sente responsabile dell’annuncio: “Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù che voi avete ucciso appendendolo a una croce”. Non si tratta dell’esaltazione di un eroe, ma della proposta di Dio all’uomo di una prospettiva e di una storia nuova, quella cristiana. Quella dei primi discepoli di Gesù è la scelta della verità, anche se risuona improbabile per la sapienza del mondo.
Quello che conta è la verità, che perciò i primi cristiani hanno sentito di dover testimoniare con coraggio e disponibilità a patire per amore di essa. Tanta è la forza con cui il Risorto è sentito presente e vivo nella celebrazione dell’Eucaristia e nella comunione con lo Spirito di Lui che la fustigazione e l’oltraggio non arrestano il cammino del Vangelo.
Perciò contempliamo questi uomini e donne, fratelli e sorelle nella fede, “lieti di essere giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”.
È la beatitudine annunciata a Tommaso nel Cenacolo: “Beati quelli che credono senza vedere”.