XXI DOMENICA T.O.- Anno C
(Is 66,18-21; Sal. 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30)
Ascoltiamo la Parola del Signore che la Chiesa ci trasmette attraverso la liturgia. Il Vangelo ci dice che Gesù “passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme”. Viaggiare, essere in cammino, sono termini che Luca usa sempre, nel Vangelo come negli Atti. All’inizio della sua esistenza, insieme ai suoi genitori, Gesù si è sempre trovato in cammino, poi, uomo maturo, ha iniziato il suo viaggio verso Gerusalemme. Passa attraverso città e villaggi per annunciare il Vangelo, così come accadrà alla giovane Chiesa degli Atti. In questi ultimi tempi il papa Giovanni Paolo ha riscoperto in prima persona la vocazione della Chiesa alla itineranza.
Il Vangelo ci mostra “un tale” che chiede a Gesù: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” – quelli che nella fede riescono ad accogliere il Signore che ci viene incontro, che ci ha amati per primo e ci attende per condividere con noi la sua vita? Chi riesce ad entrare in questa vita, a salvarsi? Anche noi ci poniamo spesso questa domanda: “Chi entrerà in questa vita? Sono molti o pochi quanti riescono ad accoglierla e a farla propria?” Gesù non ama rispondere a domande poste in questo modo, perché vuole che il mistero del Regno, del suo sviluppo e del suo trionfo definitivo resti racchiuso nel cuore del Padre. Il suo intento non è rispondere alle nostre curiosità, ma chiamare l’uomo a scegliere il suo Vangelo in maniera radicale, a decidere per lui in maniera esclusiva. Perciò non risponde direttamente, ma dice: “Sforzatevi ad entrare per la porta stretta…”. Più volte Gesù ha parlato dell’asprezza del suo cammino. Non molte domeniche fa, alla fine del mese di giugno, abbiamo letto, nel capitolo 9 di Luca, queste parole: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Gesù ci ha anche esortato a non dare troppa importanza alle sicurezze affettive, a non volgerci indietro, dopo aver messo mano all’aratro, alla sua sequela. La “porta stretta” è il sentiero arduo che Gesù percorre, andando a Gerusalemme, dove sarà condannato e crocefisso. In lui c’è una vena di pessimismo: egli teme che i discepoli siano titubanti, perché non vogliono affrontare l’asprezza del cammino. Perciò Luca dice che potrebbe accadere, alla fine del tempo, che qualcuno di noi non sia riconosciuto dal Signore, anche se nella vita è stato un credente, un praticante, che magari ha anche seguito corsi di catechesi. Non sarà Dio a respingerci, perché il suo cuore accoglie ogni uomo. Come abbiamo ascoltato dal profeta Isaia nella prima lettura, il Signore “verrà a radunare tutti i popoli e tutte le lingue”. Luca conclude proprio questo passo dicendo che “Verranno da oriente a da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel regno di Dio”. Non è Dio che chiude la porta, ma il nostro “no” alla sua chiamata. Dio ci invita, ci aspetta sulla soglia della porta, come il padre della parabola al cap.15 del Vangelo di Luca. Ma non c’è incontro senza reciprocità. Il Signore non ci salva senza il nostro “sì” ad accogliere la strada di Gesù, unica via per la nostra salvezza, la porta stretta della croce attraverso cui egli dovrà passare. Ma è la via che lo porterà in cielo nella gloria dell’Ascensione. È per amore che Gesù ci esorta a percorrere questa sua strada. Accogliamo con fede oggi la perla che il Vangelo ci propone.
L’immagine della porta stretta è consegnata alla nostra coscienza e alla nostra responsabilità. L’interrogativo posto dal Vangelo di Luca è giusto: “Che dobbiamo fare perché la nostra vita di fede si educhi alla realtà della sequela?” L’appartenenza al Signore non è mai scontata. Egli ci invita a non anteporgli nulla, ma che cosa deve significare per noi questa sua chiamata? Si pone qui una riflessione seria riguardo al tempo in cui viviamo, che ha avversione, rifiuto per ogni via stretta. L’ambiente, condizionato dal mercato, la moda, i mass media ci spingono a cambiare strada di fronte ad ogni richiesta di “strettoie”. Cambiare direzione, pur di non soffrire. Questo rifiuto di ogni dolore, di ogni fatica, di ogni sofferenza diventa progressivamente incapacità di accogliere la diversità dell’altro, perché il farlo significa uscire dal mio narcisismo, dal chiuso della mia individualità e in qualche modo soffrire. La incapacità progressiva ad uscire da me stesso mi conduce ad aver fastidio dell’altro e quindi ad emarginarlo. Nel cap.19 del Vangelo di Matteo, quando Gesù parla dell’importanza dell’unione coniugale, i discepoli commentano così: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. Questo istinto che rifiuta ogni fatica abita nel cuore di ciascuno di noi. Ma così è la vita stessa di relazione che rischia di dissolversi. Se l’altro non si sente amato non mi riconosce, non mi ascolta, si sente solo. Ma proprio qui è il rischio – che Gesù ci addita – di non essere riconosciuti da Dio, quando saremo alla sua presenza. Perciò egli ci indica la porta stretta, la via regia della croce, ci invita ad affrontare il sacrificio, per non avere una vita cristiana di basso profilo. Noi sbagliamo quando, con novene e pellegrinaggi, chiediamo al Signore di esentarci dalla sofferenza. Nella seconda lettura, la Lettera agli Ebrei ci esorta a non sospettare della volontà del Signore. Egli ci corregge per farci crescere. Perciò non dobbiamo adeguarci alla spinta del consumismo, che vuole piegarci ad idoli pagani.
Il Vangelo ci domanda un’adesione più viva e forte alla strada di Gesù e quindi ci spinge ad andare contro corrente in questa società, dove tutto esalta solo l’individualità appagata e soddisfatta: la scuola, lo spettacolo, la televisione, la politica … Il Vangelo ci chiama invece alla strettoia della croce, che è la via dell’accoglienza dell’altro, della relazione, del dono di sé.
È morto ieri fratello Ettore, che ha avuto cura dei barboni alla stazione di Milano ed essi riconoscevano in lui Gesù. Quando avrà incontrato il Padre, certamente egli lo avrà riconosciuto, perché avrà ritrovato in lui il volto del Figlio.
Seguiamo, quanto è possibile, la via stretta del Vangelo!
“Mentre era in cammino verso Gerusalemme, passava, insegnando, per città e villaggi”.
Il “dover essere” del Figlio dell’uomo, di cui aveva parlato precedentemente, “deve” (Lc.9,22), al momento della decisione ferma di portare a compimento il dono della propria vita, ora è diventato il suo “poter essere”. Ed egli lo attua offrendo a tutti la sua parola, nelle città e nei villaggi, perché tutti gli uomini sono candidati all’incontro con Lui. Con il suo camminare ed il suo insegnamento è Maestro per ogni uomo che voglia seguirlo come discepolo, è modello di quella fedeltà al progetto di Dio che ciascuno deve portare a compimento per l’armonia e la pace del tutto e che non si può attuare senza la sua “decisione ferma” (Lc.9,51).
“Sforzatevi a entrare per la porta stretta”.
Gesù vuole dire che c‘è una vita sola, unica e irripetibile. Perciò bisogna vigilare per accogliere il suo passaggio e per rendersi disponibili alla sua proposta che i limiti individuali e l’essere coinvolti nella storia potrebbero far apparire improponibile. Perciò la scelta di seguire la via di Gesù è indifferibile.
“Molti cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”.
Gesù non parla di numeri, ma vuole ammonire, incoraggiare ad impegnare tutte le proprie energie spirituali per raggiungere lo scopo simboleggiato dal grande convito nella casa del Padre di tutti.
La premura che traspare dalle parole di Gesù è spiegata da lui stesso:
“perché quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta…”.
La scena simbolica è modificata perché è concluso il tempo della preparazione: il “padrone” ora è il “Signore”. È Gesù stesso. E Gesù invita a riflettere sul valore del tempo, non più recuperabile per quanti non hanno saputo cogliere il passaggio di Chi li invitava, il dono di Lui che camminava nelle città e nei villaggi della loro vita. Non è un giudizio di condanna l’atteggiamento severo del Signore, ma la constatazione di non poter attuare il progetto della comunione di vita, piena e senza fine, raffigurata come la mensa festosa del Regno di Dio.
Che cos’è che vale per il progetto di comunione di Dio con me, oggi?
Che cosa deve rimanere, che cosa cadere, che cosa crescere?
Queste domande il Signore ci mette in cuore.
E aggiunge che la comunione della mensa con Gesù, sperimentata da ebrei e primi discepoli suoi contemporanei, l’essere stati istruiti dalle sue parole sono segni della chiamata a varcare la porta stretta, ma non ancora la certezza di averlo fatto, di essere entrati “dentro”, nel cuore della festa.
Il criterio che il Signore stesso consegna perché vi sia il discernimento è riportato da Matteo nel discorso della montagna: “Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’ entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”(Mt.7,21).
Gesù vuole inculcare nel cuore dei suoi discepoli l’esortazione a “fare la verità del Vangelo” nella vita animata dalla fede.
Questo è il desiderio che lo spinge, e così si chiarisce che il suo essere “il Signore” non si manifesta in un tribunale di condanna, nell’escludere, ma nell’includere tutti quelli che avevano cercato di entrare passando attraverso la porta stretta del rinnegamento di sé e della premura per i fratelli, come il samaritano, Zaccheo, il fattore infedele, tutti quelli che “verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel Regno di Dio”.
La gioia di Gesù è la sala piena di gente di ogni colore, provenienza, resa famiglia di un Padre che chiede solo di conoscere quelli che ama e farsi conoscere da loro, per vivere insieme per sempre.
Luca ci dona, alla conclusione del viaggio verso Gerusalemme, il sentimento profondo del cuore di Gesù:
“Quando fu vicino alla città, pianse su di essa dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi”. (Lc.19, 41-42)
Come se intendesse dire alla città: sei stata visitata, ma hai mantenuto chiuso il tuo cuore, non hai approfittato di quella visita. Così permette di allargare il pensiero ad ogni situazione analoga.
Il Signore arriva, il Signore visita, il Signore affida il dono della sua Parola, ma la responsabilità resta nella libertà umana che Egli rispetta con scrupolo. Piange, ma non obbliga, non forza, rispetta ogni figlio come figlio della libertà, sacramento della sua infinita libertà di Creatore.
Il tempo in cui viviamo la fede è il tempo di ciascuno di noi. Non è tempo di avarizia né di desiderio di Dio di allontanare qualcuno da sé. Dio non respinge, ma continua a proporci la sua festa.