XXII DOMENICA T.O.- Anno C
(Sir 3,19-21.30-31; Sal. 67; Eb 12,18-19.22-24; Lc 14,1.7-14)
Ben Sirà, in greco Siracide, è un credente ebreo che sperimenta la difficoltà della fedeltà nel tempo dell’ellenizzazione imposta da Antioco IV Epifane nel secondo secolo a. C. . La sua proposta è la ripresa di tutta la tradizione biblica, il suo pensiero è concentrato nella Sapienza, che è il dono offerto da Dio a chi ha scelto e da cui è accolto con docilità: questo dono – egli dice ai fratelli di fede ammaliati dalla cultura greca – fa del saggio un veicolo di Sapienza, un ambiente vivente dove la Sapienza che viene dall’alto può dimorare stabilmente se accolta con venerazione e amore, in quell’atteggiamento che la Bibbia chiama “timore di Dio”.
Questa disposizione di fondo di Ben Sirà aiuta ad entrare nel testo liturgico di oggi che inizia con le parole: “compi le tue opere con mitezza”. Non è solo la raccomandazione del comportamento cordiale e pacifico dovunque si debbano vivere delle relazioni, ma più profondamente è invito ad avere una coscienza pacificata e sincera della verità del proprio limite di creatura che sta davanti a Dio Creatore, per cui è contestatrice della ricerca di arrampicature e di prestigio, che spesso occupa la nostra interiorità. Questa coscienza rende il saggio amabile al Signore, che alla docilità del mite “rivela i suoi segreti”.
Perciò Gesù proclamerà la beatitudine della mitezza (Mt,5,5) e Maria gioirà nella coscienza della “umiltà della sua serva” (Lc,1,48).
– “quanto più sei grande, tanto più fatti umile”
Invitando ala vita nella Sapienza, Ben Sirà non invita alla separatezza, tanto meno all’autoannullamento che contraddice la relazione fraterna, ma all’atteggiamento umile del servizio che si radica nella consuetudine con la vita interiore, perché “Dio dagli umili è glorificato”. Nella comunità che vive con semplicità e concretezza il dono della propria fede e la condivisione della qualità di ciascuno, si attua quanto s. Paolo scriverà ai Romani: “non aspirate a cose troppo alte, ma piegatevi invece a quelle umili” (Rm.12,16), proprio in quella Roma in cui, ieri come oggi, l’ambiente è inquinato dalla sete inesauribile di prestigio, nella vita della società e della Chiesa. Lì i cristiani sperimentarono la promessa del Signore ai miti: “possiederanno la terra”, nel senso dell’universalità del Vangelo, non certo nel senso di superiorità spirituale o egemonia culturale.
La conclusione della paginetta di Ben Sirà invita alla meditazione della parola di Dio e all’imitazione di chi ascolta con “orecchio attento”.
Questa voce fraterna che ci giunge dalla fede ebraica, in un tempo di prova e di persecuzione che accresceva l’attesa dell’intervento di Dio, introduce bene l’insegnamento di Gesù.
A Lui non sta a cuore la norma di un galateo sociale e neppure l’invito a coltivare la virtù della modestia, almeno non solo questo. Gli sta a cuore di invitare quanti lo circondavano ad essere persone liberate dalla preoccupazione di sé, perché tese ad essere vive davanti a Dio e perciò capaci di porsi al servizio degli altri. È il superamento di quell’onore che si pensa di essere in diritto di ricevere e di dover riconoscere nell’altro, guardando al ruolo, che fa dimenticare il cuore delle persone. All’invitato che si fa precedere da tutti gli altri viene dato il nome dolce di “amico”. Luca riferirà ancora il pensiero di Gesù nell’ultima cena, rivolto ai dodici (Lc.22,27). Come dirà Karl Barth: “è il totalmente Altro che viene, affinché la storia diventi totalmente altra da quello che è”. Il suo invito finale è a chiamare i poveri, quelli che sono esclusi persino dal culto perché deformi, ponendo così, a fatti, il segno del Regno che viene.
Domandiamoci cosa significano queste parole nell’oggi della società e della Chiesa, mentre si afferma sempre più radicalmente la cultura dei diritti che rende improponibile considerare se stesso e l’altro come possesso, nella famiglia, nel lavoro, nella politica. È come se si rendesse sempre più urgente la necessità di operare la scelta tra il vivere solo per sé, usufruendo delle tante possibilità di autonomia su cui si può far conto, e il vivere in relazione, come persona che ama e che è amata. Questa scelta non si contenta di un bel vivere sociale, appunto da galateo, ma si radica nella fede in un Dio che ha scelto di non tutelare il proprio privilegio, ma è entrato nella storia. Questa scelta diventa cultura che inevitabilmente ha a che fare con la vita e con la morte, con l’amore e con il dolore, con il lavoro e con il riposo, con la vita in tutta la sua complessità. Se non fosse così, se ci si contentasse di una ispirazione generica al vangelo, o, al contrario, se ci si contentasse solo di una dimensione intimistica e devozionale, il messaggio cristiano resterebbe fuori della storia, senza rilevanza umana. La mitezza è l’anima della relazione che nasce nel rapporto con il Signore e si spiega pienamente nella testimonianza umile, tutt’altro dall’asprezza della difesa ad ogni costo e dalla pretesa di egemonia culturale. Così Gesù ci chiama “amici”.
È il racconto della scena di vita ordinaria, che Gesù vede ed interpreta in modo simbolico trasferendolo in campo religioso. Non si ferma a criticare l’abitudine di cercare i primi posti, molto comune, specialmente tra i farisei. Il comportamento è sbagliato perché toglie a chi è stato liberato da Dio per essere membro del suo popolo la semplicità concreta di mettersi al servizio degli altri. Gesù, perciò, non vuol dare un insegnamento di modestia, che potrebbe essere un altro modo di preoccuparsi di se stessi. Chi è alla ricerca del proprio prestigio, non è libero per l’amore fraterno. Gesù lo sottolinea con il detto del versetto 11: “Perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”.
E parla in maniera diretta a chi lo ha invitato e a ciascuno di noi oggi.
Critica l’abitudine degli inviti reciproci tra benestanti, regolati dall’interesse (come i “pranzi” e le “cene” “di lavoro”!). Ora si inaugura un’altra prassi, un agire che rifletta quello di Dio che Gesù vive in se stesso, l’amore gratuito. L’agire quotidiano del credente deve esprimere visibilmente l’agire di Dio Padre.
Questo brano dice chiaramente l’amore di Luca per i poveri e lo propone. Ma è attento a presentare Gesù come Maestro che parla ai propri discepoli invitandoli a non dimenticare i poveri, così testimonierà Paolo dell’incontro con Pietro ed i primi apostoli (Gal.2,10), come una garanzia di autenticità. Così si manifesta l’esigenza di non pensare la comunità cristiana come un luogo intimistico, elitario, in definitiva razzista. Non saranno mancati i casi concreti per questa preoccupazione e Luca accoglie l’invito del Signore e lo trasmette come appello permanente a non chiudersi ai bisogni dell’umanità. Gesù ne parla chiaramente, ma con accenti fraterni verso il fariseo che lo ha invitato. Lo esorta a non restare prigioniero di una relazione sociale chiusa in se stessa, fondata sul guadagno e non sull’apertura del cuore.
La novità portata da Gesù richiede una qualità nuova della relazione umana, senza calcoli, che tolga le ineguaglianze e le discriminazioni. Il discepolo che entra in questa logica sarà contraccambiato da Dio stesso perché i poveri, storpi, zoppi, ciechi non potranno farlo e Dio stesso gli dirà: “Lo avete fatto a me” (Mt.25,31-46). E Gesù lo anticipa: “E sarai beato!”.
Cerchiamo di attualizzare.
Non basta che la Chiesa parli di misericordia, bisogna “fare la verità” è quello che il Signore propone: ”Come il Padre risuscita i morti e da la vita, così anche il Figlio da la vita” (Gv.5,21). Fin dall’inizio la vita della comunità e dei discepoli di Gesù si distinse con una misericordia concreta, non lasciata alla sola iniziativa dei singoli, ma assunta come “abito”, come espressione di tutto il loro “essere insieme”. Perciò il legame strettissimo tra l’eucarestia e il pasto fraterno e poi quello delle mense dei poveri che furono i primi passi dell’amore che si istituzionalizzava. Poi le collette per le comunità più in difficoltà anche se lontane e sconosciute. Si chiamavano fratelli e si comportavano come tali, così come testimoniano Giustino e Tertulliano nelle loro apologie che riferiscono lo stupore dei pagani: ”Guardate come si amano” (Tertulliano: “Apologia” 39).
Così vivere il Vangelo significa contribuire ad incrementare la cultura della misericordia anche nelle situazioni modificate del tempo che viviamo per il venir meno della fede in tanti e per l’imborghesimento della vita di molti credenti. Molto spesso le persone ferite dalla vita che Gesù ha prediletto sembrano non trovare accoglienza nelle nostre comunità. E questo da spazio alla critica più grande che si possa fare alla Chiesa, che alle sue parole seguano più azioni perché molti la sentano madre e non matrigna rigorosa e chiusa nei pregiudizi.
“Se la Chiesa non vuole solo predicare, ma anche vivere il messaggio del Signore sul Padre che perdona e il suo modo di comportarsi con le esistenze marginali di quel tempo, allora non deve creare uno steccato attorno a coloro che, allora come oggi, non passano per persone pie.
Essa deve avere un cuore per la gente che conta poco, per i poveri, i malati, i disabili, i senza tetto, gli immigrati, i carcerati e le prostitute che, spesso, data la loro grande miseria, non vedono altra via che non sia quella di vendere il proprio corpo, subendo pesanti umiliazioni.
Ovviamente la Chiesa non può mai giustificare il peccato, però deve occuparsi con misericordia dei peccatori, mai essere percepita soprattutto come la Chiesa dei ricchi, della classe dominante, delle persone socialmente rispettabili.”
(“W.Kasper: “Misericordia”, Queriniana 2013 p.251-252)
Dobbiamo domandare il dono della cultura della misericordia ed impegnarci per essa, come sta testimoniando e vivendo Papa Francesco, perché dall’estromissione del Dio ritenuto irrilevante si passi al nuovo inizio dell’accoglienza grata del Dio che restituisce significato ad ogni cosa.