XXX DOMENICA T.O.- Anno C
(Sir 35,15-17.20-22; Sal. 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14)
Per la seconda domenica consecutiva leggiamo il capitolo 18 del Vangelo di Luca e la liturgia ci rinnova l’invito ad immergerci, con la preghiera, nella contemplazione del mistero di Dio. Nella Colletta abbiamo pregato così: “O Dio, fa che ci apriamo alla confidenza della tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome…”
“Due uomini salirono al tempio…”. Per pregare dobbiamo uscire dal chiuso del nostro io e salire, tendere verso Dio per aprirci al dono della sua misericordia, per essere accolti dal suo amore. Domenica scorsa Luca ci invitava alla preghiera continuata, che non si stanca, facendoci intravedere così il suo itinerario di luce. La nostra esperienza ci spinge verso la preghiera quanto più sperimentiamo la debolezza personale. Le mani alzate di Mosè, la petulanza della vedova ci dicono che con la preghiera è possibile attraversare la soglia del mistero di Dio, e cogliere che oltre quella soglia c’è la presenza di Qualcuno che conosce la nostra situazione umana senza restarne estraneo, perché l’intimo essere di Dio è l’amore. Ce lo dice la prima lettura, in cui è riflessa l’esperienza storica della relazione di Israele con Dio: “La preghiera dell’umile penetra le nubi…”. È un’esperienza che ci apre alla confidenza.
Domandiamoci allora, oggi: se Dio non fa differenza tra le persone, se ascoltala vedova nella sua insistenza, è perché vuole rivelare il suo amore paterno per ogni uomo, amore che rispetta la dignità del più piccolo, che perciò è “preferito”. Nel capitolo 10 Luca descrive la gioia prorompente di Gesù, una gioia rara ed eccezionale: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti ed ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così ti è piaciuto!”. Solo a chi è piccolo il Signore rivela la gratuità infinita del suo amore. Pensare che il rapporto con Dio debba dipendere dai titoli intellettuali o dai meriti di una nostra osservanza al culto o alle regole di comportamento è come tradire la natura stessa della preghiera biblica e cristiana il cui frutto è la scoperta della gratuità divina. Il protagonista della preghiera non è l’uomo, ma Dio, che ascolta, ci introduce nella sua intimità, ci prende in braccio. La preghiera è incontro con la gratuità divina: il Signore non ci viene incontro perché riconosce in noi il merito di un contratto onorato e tanto meno l’appagamento fiscale di un diritto acquisito, fondato su nostri presunti meriti. Come pensava il fariseo. Se davvero cerchiamo di metterci alla presenza del suo amore, scopriamo che non abbiamo nessun titolo per stare a quella presenza, proprio come il pubblicano. Pregare è lasciarsi avvolgere dalla gratuità dell’iniziativa divina, che ci precede, è arrendersi a lui, lasciare che da Dio, dal “Padre della luce” (come dice Giacomo), risuoni la Parola, che, solo dopo essere stata accolta, rende possibile il dialogo.
Ma perché questo dialogo si instauri è necessario fare intorno a noi il silenzio, come Gesù che saliva solo sul monte per pregare. Ed è necessario renderci conto che la realtà di Dio è al di sopra, al di là delle nostre parole umane. Lo capirono bene i primi cristiani: Ignazio di Antiochia diceva appunto che “Cristo è il Verbo uscito dal silenzio”. Se vogliamo imparare a pregare dobbiamo togliere dal cuore le cose che fanno chiasso, il vanto del fariseo, che ci accompagna tutti e ci fa sentire ricchi, i pensieri preoccupati che ingombrano la mente e impediscono il rapporto libero con il Signore. L’atteggiamento della preghiera non è quello “chiassoso” del fariseo – anche se a volte i momenti di solennità comunitaria ci fanno esprimere rumorosamente l’intensità della nostra gioia – ma quello “muto” del pubblicano, che avverte la sproporzione tra creatura e creatore, tra santità e peccato. Perciò non c’è preghiera senza adorazione, non c’è adorazione senza silenzio. Altrimenti si rischia di cadere nel ritualismo.
Il silenzio ci insegna che non è necessario nascondersi davanti a Dio, come Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden dopo il peccato, come Caino, “ramingo e fuggiasco” dopo l’uccisione del fratello, perché voleva nascondersi agli occhi di Dio. Eppure Dio continua a cercarci, anche quando la terra è imbrattata dal sangue dei fratelli, sangue di cui siamo complici anche oggi, come in questa guerra, in tutte le guerre, che devastano il nostro mondo. Il pubblicano con la sua preghiera “muta” e consapevole della propria colpa ci insegna che il contrario del peccato non è la virtù, ma la grazia dell’amore misericordioso di Dio. Sarebbe disperante preoccuparsi della virtù, fondarci sulla positività delle nostre opere. Il percorso che il Signore ci indica non è quello che va dalla virtù alla fede, ma quello inverso della fede che ci conduce all’amore. Egli non ci chiede di non essere peccatori, ma di riconoscere di esserlo e chiedere perdono. Da questa preghiera aperta alla misericordia divina scaturisce la pace, la solitudine finisce, perché, anche se abbiamo sbagliato, Dio non ci abbandona. Ma, allora, se so di essere perdonato, ogni mio pregiudizio viene a cadere e imparo a guardare ogni uomo con lo sguardo di Gesù, che ci rende tutti sempre capaci di ricominciare. Acquistiamo la libertà interiore di Paolo che, nella seconda lettura, imprigionato e condannato a morte, riesce a dire: “tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e
mi ha dato la forza…”. Queste parole non sono il risultato di religiosità e di ascesi, ma della preghiera. Occorre reimparare il silenzio che la accompagna, spegnendo cellulari e televisione, testimoniare che in questo silenzio riusciamo davvero ad essere vivi, non solo in senso strettamente religioso e liturgico, ma anche “laico”, proponendolo all’esperienza quotidiana di tante “vittime del frastuono”, cui sembra di essere tormentate da “voci” che non le lasciano.
Chiediamo la grazia di vivere di silenzio, nel silenzio, il silenzio di Dio da cui è venuto a noi Gesù.
Ancora una pagina densa di Luca, propria di lui. Nel finire dell’anno liturgico le sue parole diventano per noi un ammonimento incalzante. Non è un insegnamento sulla necessità della preghiera, ma piuttosto sul rischio di una pietà sbagliata, che “non arriva fino alle nubi”, non unisce a Dio: riguarda tutti i credenti, la comunità cristiana di cui anche noi facciamo parte.
Questa pietà “sbagliata” è raffigurata nell’atteggiamento del fariseo, una persona credente e fedele ai comandamenti, che perciò ha motivo per ringraziare il Signore della propria vita di uomo religioso. È una persona “giusta” perché senza debiti che le pesino e si ritiene autorizzata ad esprimersi con l’elencazione dettagliata e abbondante di quanto opera nel compimento dei propri doveri, una persona in diritto di ritenersi diversa, di valutare altezzosamente chi non opera come lei. Quello che Luca esprime è un insegnamento che riguarda tutti noi, ci dice il rischio di essere abitati dalla “intima presunzione di essere giusti”. È un ammonimento e un invito ad interrogarsi, a non considerare questa figura come fosse una caricatura, a non disattenderla con il disprezzo che il linguaggio corrente indica. Nella preghiera di chi si ritiene sinceramente credente, dice il vangelo, può insinuarsi il rischio di guardare solo agli obblighi da assolvere, a sentirsi soddisfatti del dovere compiuto e in colpa per quello non compiuto, rischio di guardare solo se stessi perfezionisticamente, senza la gioia della gratitudine e della lode, senza la libertà di testimoniare al prossimo l’essere stati amati e perdonati gratuitamente dal Dio che ogni giorno chiama alla vita e alla possibilità di ricominciare a vivere, come abbiamo imparato da fanciulli: “Ti adoro, mio Dio, … ti ringrazio di avermi creato, donato la fede, conservato in questo giorno…”.
Riconoscere il debito verso Dio di tutto il proprio essere conduce inevitabilmente a sentirsi in debito di amore e di misericordia verso i fratelli. Come la gratitudine verso Dio per il suo amore immenso è senza limiti così il debito verso l’umanità è senza limiti; perciò la missione è il farsi carico delle “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”(G.S.1), come dice la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del concilio Vaticano II, “Gaudium et spes”. Chi non sente questo debito verso i fratelli “non ha conosciuto Dio” (1Gv.3,6). Qui si capisce perché è “sbagliata” la preghiera di chi guarda solo se stesso. La preghiera cristiana prende in sé quel “tutti” che è il grido di Gesù, nella famiglia, nella società, nel mondo, in tutto quello che ha bisogno di essere riconciliato e redento. Essere nella Chiesa come perdonati, graziati, è il grande dono di Dio che ci libera da noi stessi e ci rende fratelli di tutti.
v.13: il pubblicano “sta a distanza”, dice anche con il corpo di essere lontano da Dio: “non osava alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto”, forse per pentimento, forse per disperazione perché nella Palestina al tempo di Gesù non c’era spazio di pentimento per chi operava con il danaro dell’occupante pagano, ritenuto impuro. E questo condannava all’esclusione. La sua è una preghiera di poche parole, di affidamento alla misericordia di Dio. Sa di essere quello che il fariseo lo accusa di essere. Si riconosce in quel disprezzo: è la verità del suo essere uomo nel peccato. Non ha nulla da offrire, può solo domandare perdono. Non ha neppure la possibilità di lasciare la professione che da da vivere a lui e alla sua famiglia. Il pensiero va alle tante persone che hanno la vita legata alle strutture di peccato” (Giovanni Paolo II in “La fame nel mondo” doc.4-10-1995) che attanagliano, come possono essere quelle economiche, che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, quelle militari, quelle della polizia, che in queste ore costringono fratelli ad usare violenza ai propri fratelli, quelle di tante situazioni affettive irrisolvibili nel loro essere nate male e sfociate amaramente in scelte non corrispondenti al pensiero di Dio sul matrimonio e sulla famiglia.
v.14: “Vi dico” Con solennità Gesù pronuncia il giudizio di Dio: “questi”, il pubblicano, “a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato”. Non è solo la rivelazione dell’amore misericordioso per ogni vicenda umana, ma il rifiuto di Dio per chi rifiuta la misericordia, non la conosce, la relega nel mondo dei sogni, non la pratica.
Il contesto del tempio e della preghiera evidenzia perciò lo sbaglio del fariseo, il suo atteggiamento fondamentalmente lontano dal cuore di Dio. Luca lo indica come vittima di una pietà sbagliata, frutto di una presunzione che gli impedisce di essere dono fraterno per l’altro, nella gratitudine per quanto ha ricevuto e nell’accoglienza di chi lo sfiora nella vita. Il pubblicano che si riconosce incapace di rapporti di verità e di giustizia e si affida non alla propria capacità ma alla misericordia, è nell’atteggiamento che conduce al cuore di Dio, “perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.
Luca invita i cristiani che lo leggono a guardarsi da quella preoccupazione assillante per la perfezione individuale che rende inclini a giudicare il prossimo, a definirlo senza benevolenza, a negargli l’accoglienza, la fiducia, a chiudersi nell’autosufficienza.
Invita a guardare al cuore di Gesù e a fare della vita intera una liturgia di lode riconoscente per l’amore ricevuto gratuitamente e di condivisione fraterna a amabile.