XXXII DOMENICA T.O. – Anno C
(2Mac 7,1-2.9-14; Sal. 16; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38)
Cerchiamo di cogliere insieme la preziosità del dono della Parola, propostaci oggi dalla liturgia: “Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui”. In questa trentaduesima domenica del Tempo Ordinario, che sta per concludersi, Gesù ci dà un insegnamento chiaro sulla nostra vita, vita che va oltre la morte. L’Antico Testamento aveva fatto fatica a perforare il muro della morte. Solo molto tardi, intorno al 169 a.C., all’epoca delle persecuzioni di Antioco Epifane, si era raggiunta l’intuizione che coloro che morivano martiri avevano un futuro, così come testimonia la prima lettura tratta dal libro dei Maccabei. Ma è solo il Nuovo Testamento che, nella persona di Gesù, afferma l’eternità della vita. “Io sono la vita”, dice Gesù. “In verità vi dico, se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte”. Gesù porta all’umanità l’eternità come promessa di vita, come definitivo appartenere a Dio, come dimorare con lui in comunione senza limiti, per sempre.
I primi Cristiani hanno accolto con gioia questa novità. Negli Atti degli Apostoli vediamo Stefano morire pregando: “Signore Gesù, accogli il mio spirito!”. Morire “per abitare presso il Signore” è l’aspirazione di Paolo (cfr. 2Cor.5,8). Non è un desiderio di morire, causato da malinconia o da vecchiaia, ma consapevolezza della chiamata a dimorare per sempre con il Signore. E la comunità giungerà a chiamare l’ora della morte come “dies natalis”, giorno della nascita!
Non si tratta di un’acquisizione filosofica, come poteva essere l’esigenza greca di immortalità. Si tratta di accogliere senza riserve la Parola di Dio creatore, che dona la sua vita senza fine a noi, suoi figli, “figli della resurrezione”, come abbiamo letto in Luca. L’annuncio del Vangelo è quello di una realtà alta della vita che continua, di un “cielo” dove l’io personale entra con tutte le sue caratteristiche, coscienza, volontà, amore, con tutta la sua storia. Ma nella realtà definitiva la persona sboccia pienamente in Dio, senza le riserve, senza i condizionamenti della precarietà, senza le ambiguità della sensibilità, perché si lascia guidare dalla Provvidenza. Questa realtà è il fiore che la potenza di Dio suscita dal seme che il passaggio della morte ha costretto a deporre nella terra.
Questa fede non è una conoscenza razionale, è la fede nel Dio dell’Esodo che si rivelò a Mosè come “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Vi prego, fermatevi su queste parole: “Io sono il Dio di”. Dio si rivela come Colui che appartiene ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe, colui che appartiene all’uomo. Gesù ci invita ad entrare nella luce di questa certezza: noi siamo nati nel cuore di Dio da sempre e per sempre. Ci invita ad ascoltare il Padre che ci sta dicendo: “Io sono il Dio tuo” e ci chiama alla relazione di una paternità non delegabile, che non dobbiamo confondere con una paternità rivolta ad una imprecisa umanità collettiva. Dio ama ciascuno di noi, individualmente, il suo amore ci precede e ci attende. Ci dice: “Io sono il Dio di Paolo, di Antonio, di Francesca…”. Ci invita a fidarci del suo amore potente e tenero, annunciato dai profeti, l’amore di un Dio che accarezza il bambino e aspetta di essere accarezzato. Un amore che guida la nostra storia personale come un itinerario che ci conduce fino allo sbocciare pieno del fiore, lì dove eternità e presente si incontrano. L’uomo così è liberato dal trauma del tempo, che, come dice il mito greco di Cronos, divora i suoi figli e stringe le nostre esistenze dentro una tenaglia. La dimensione della fede ci permette di uscire da questa gabbia ed entrare in quell’eterno presente che i Cristiani hanno imparato a chiamare “l’ottavo giorno”. I figli di Dio sono figli della resurrezione. Nel secondo secolo Tertulliano scriveva: “Adamo udrà da Dio la parola: Ecco, Adamo è diventato uno di noi” come nel libro della Genesi. ”Perché senti astio per la carne? Nessuno ti è tanto prossimo da dover più amare, dopo Dio; nessuno ti è più fratello, perché con te essa nasce in Dio”. Anche se vecchia e sofferente la nostra carne ci accompagnerà fino alla morte.
Il Vangelo di Luca, oggi, conclude con queste parole: “Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per Lui”. L’importante è scegliere subito la vita che non passa, la vita dell’amore, che ci permette di compiere scelte e gesti che rimangono. Questa vita è dono del Signore per sempre, è la tensione costante della fede che permette l’incontro dell’eterno con il presente. Nell’amore che ci è donato e che siamo chiamati, a nostra volta, a donare, l’eterno è “subito”, “oggi”, “ora”: sono avverbi costanti nella Scrittura e ci guidano ad incontri nella relazione, nella reciprocità. Fare la verità per l’eternità, così che gesti e scelte rimangano positivamente nel tessuto della vita, per sempre. Vivere l’amore. Come dice Giovanni nella sua prima lettera: “Noi siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli”.
“Non si può né si deve dire l’ultima parola prima della penultima. Noi viviamo nelle penultime cose e crediamo nelle ultime … Penso che Dio sia meglio onorato se noi riconosciamo in tutti i suoi valori la vita che egli ci ha dato, se la viviamo e la amiamo fino all’esaurimento, soffrendo quindi profondamente e sinceramente quando vediamo i valori esistenziali menomati e perduti”, scriveva Bonhoeffer. L’oggi della città in cui viviamo domanda questo amore profondo e sincero, fino all’esaurimento, con gesti capaci di testimoniare e trasmettere la vita per sempre.
Il Salmo 22, il Salmo con cui Gesù pregò mentre moriva sulla croce, si chiude con queste parole: “Io vivrò per lui”, la mia anima per lui vive. Il salmista contempla profeticamente la vita di Dio, che è vita per l’uomo, pienamente svelata dal Figlio che si dona a noi sulla croce e grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, eppure termina la sua preghiera con questa certezza: “Io vivrò per lui”. Sarei felice di riuscire a comunicarvi questa certezza: Gesù è sulla croce per ciascuno di noi e dalla croce ci chiama per nome, singolarmente, come chiamò per nome Abramo, Isacco, Giacobbe e ci dice: “Vivrò per te”. Pier Paolo Pasolini avverte nell’urlo di Gesù che “egli vuol far sapere, in questo luogo disabitato, che io esisto”, che io, personalmente, valgo davanti a lui. Gesù ci rivela l’essenzialità di questo bisogno di reciprocità, ci chiede di dirgli: “Signore, vivrò con te, per te”: Qui, nell’amore donato, è la nostra identità profonda. Seguire la sua strada, far nostro il suo stile di vita, perché, come dice Giovanni, molti “abbiano la vita e la abbiano in abbondanza”!
In questo ventesimo capitolo, propostoci oggi dalla liturgia, avvertiamo un clima teso, di inimicizia, alla vigilia della passione Ma anche un clima solenne perchè, in forma indiretta, Gesù annuncia la propria resurrezione e fa intravedere la possibilità che essa venga donata a quanti saranno figli della sua resurrezione. La resurrezione è verità difficile che richiede una grande disponibilità interiore: anche per i credenti è più facile accantonarla che custodirla e viverla.
L’occasione dell’insegnamento è data dal ricordo dell’istituzione del “levirato”, di origine ittita ed assira e accolta nel Deuteronomio al capitolo 25. La legge faceva obbligo ad un uomo di sposare la vedova del proprio fratello, morto senza figli, in modo da dargli una discendenza: “il primogenito che essa metterà al mondo andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questo non si estingua in Israele.”(Dt.25,7) Una forma del desiderio di sopravvivere nei figli. Una prescrizione di questo tipo – dicono a Gesù i sadducei, ebrei colti che davano un’interpretazione letterale della Legge – si oppone alla resurrezione, perché questa era pensata come una pura continuazione del presente, anche se migliorata dalla condizione di immortalità. Gesù risponde con il riferimento al testo dell’Esodo, in cui Dio si rivela a Mosè nella scena del roveto e afferma con chiarezza di voler vivere l’amicizia con l’uomo senza limiti, senza bloccarsi nella morte, perché è il Dio dei viventi, il Dio per sempre (cfr.Es3,6).
Luca si serve della distinzione, spesso presente nella cultura ebraica, tra mondo presente, cioè vita umana nella condizione attuale, e mondo futuro, atteso come condizione di beatitudine e gloria. Dice che, nel mondo presente, il matrimonio è necessario per la sopravvivenza perché l’uomo è mortale. Nel mondo futuro, invece, questa necessità cadrà, perché l’uomo avrà in dono l’immortalità. La condizione di esistenza nella vita futura che Gesù annuncia sarà radicalmente diversa da quella attuale perché sarà vivere non più nella precarietà del tempo, ma nell’immortalità di Dio, già partecipata a quegli esseri spirituali che chiamiamo angeli.
Questo insegnamento appare inimmaginabile e perciò inaccettabile non solo per la razionalità antica, ma anche per quella moderna. Gli ebrei, anche ortodossi e pii, legavano vita e fecondità. Perciò – dice Luca – occorre essere “giudicati degni dell’altro mondo”, ed invita ad adeguare la vita alla fede nel futuro di Dio. Non si tratta di cercare di immaginare l’altro mondo per sapere come è fatto: non lo dice nessun “catechismo”. L’essenziale è sapere che è un mondo trasfigurato e che, per entrarvi, occorre passare attraverso la morte di Gesù Cristo, vivere in Lui. Questo essere con il Signore nel passaggio della morte, permette alla potenza del Padre di compiere un gesto di nuova creazione per quanti appartengono al Figlio, donando loro la sua umanità risorta. Cristo risorto è perciò il centro della vita, la causa e l’approdo definitivo di essa, che sarà vivere con Lui e come Lui; per incontrare, nel modo che Lui prepara, le persone che abbiamo amato sulla terra.
Potremmo avere sgomento di fronte alla visione della resurrezione che Paolo sintetizza con la frase: “così saremo sempre con il Signore” (1Tes.4,17), quasi come se tutto quello che abbiamo amato fortemente e vissuto appassionatamente fosse alla fine svalutato. Il desiderio di ricongiungimento, infatti, va nel senso di continuare in modo più perfetto, non di diminuire, il rapporto di amore con i nostri cari. Va più nel senso di continuazione che in quello di trasfigurazione.
Facciamo attenzione, perciò, a non provare sgomento, ma a riflettere bene.
La parola del Vangelo: “sono uguali agli angeli” non si riferisce alla corporeità, che gli angeli non hanno, ma alla immortalità, alla vita nella nuova modalità di esistenza nella resurrezione, che non può significare perdita della natura umana. L’uomo risorto non è disumanizzato. Il superamento della vita scandita dalle necessità materiali, obbligatorie per sopravvivere, non annulla l’amore vissuto sulla terra e non lo impedisce nel dopo. La parola di Gesù – ha detto Giovanni Paolo II – “indica che c’è una condizione di vita priva del matrimonio in cui l’uomo, maschio e femmina, trova ad un tempo la pienezza della donazione personale e dell’intersoggettiva comunione delle persone, grazie alla glorificazione di tutto il suo essere psicosomatico nell’unione perenne con Dio” (Uomo e donna lo creò 1985).
È bello ed è attuale che la mascolinità e la femminilità non si esauriscano nel matrimonio e quindi nella funzione prioritariamente procreativa, ma esistano in vista della comunione tra le persone, che nell’al di là si ameranno ancora più compiutamente. È una realtà che Dio creatore affida alle donne e agli uomini perchè siano figli della sua vita trinitaria, che raggiungerà il suo compimento perfetto e la sua piena dinamicità nella vita della resurrezione. Ma – non sembri provocatorio – la affida anche già dal presente sostenendo quelli che sono chiamati con la luce e la forza del sacramento del matrimonio a vivere e testimoniare nel mondo l’amore unitivo, al di là della carne e del sangue.
Sono molti i credenti che superano la dimensione “penultima” della sessualità e vivono già la profezia della realtà “ultima” nella comunione di persone e di affetti alla luce dell’eternità.
Così il Vangelo guarisce l’umanità dall’idolatria della sessualità, è medicina di Dio per l’uomo di oggi.
La resurrezione finale dei corpi mortali e la vita per sempre costituiscono il tema che unifica la liturgia della Parola in questa domenica che è quasi conclusione dell’anno che ha illuminato il cammino della Chiesa con il vangelo di Luca. È il cuore della fede in Gesù, come Paolo scrive ai fedeli di Corinto: “Se il Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Se non vi è resurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto” (1Cor.15,13-14). Per chi crede in Gesù, la verità della risurrezione non può essere negata perché smentirebbe l’incarnazione, il coinvolgimento di Dio nella storia dell’uomo con la certezza della vita senza fine; una certezza che non è frutto della ricerca umana, con i suoi limiti di fronte alle realtà che la trascendono, con l’incertezza della fede: la certezza di fede è dono del suo amore fedele.
Domandiamo la grazia di rinnovare la nostra adesione al vangelo con le parole della professione di fede: “Credo la vita eterna”.
La vicenda paradossale raccontata da un gruppo di persone, credenti ma scettiche sull’eternità della vita donata da Dio, suscita in Gesù l’opportunità di proporre una visione più ampia del destino dell’uomo, non rinchiudibile in un orizzonte ristretto, bloccato dai ritmi biologici e senza futuro. Perché Dio è Dio dei vivi, Padre per sempre di figli per sempre. Nelle parole del Signore Gesù, per ben cinque volte è detta la particella “di”, per indicare il presente che non finisce, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, della “moltitudine innumerevole”. Quella particella è la chiave di lettura della eternità in Dio, è l’affermazione che la morte sarà vinta per sempre, perché ogni uomo passato per la morte sarà immerso in un legame indissolubile con il Dio della vita, che sarà il Dio di ciascuno, di quanti “nessuno può contare”, per sempre. La fine della morte sarà la vittoria dell’amore, finalmente la realtà che resterà per sempre. Questo il contenuto dell’affermazione: “Credo la vita eterna”.
Gesù non nasconde questa certezza, guarda gli uomini non come “figli di questo mondo”, assillati dall’interrogativo angosciante del “dopo”, ma come “figli della resurrezione, figli di Dio”, che non è “dei morti” ma dei “viventi”. In Lui tutti sono viventi per Lui che è l’amore eterno. A quanti credono in Lui ed hanno fiducia nella sua Parola, Gesù consegna la speranza e l’annuncio: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv.8,12).
L’importante è custodire in sé queste parole, seguendo Lui, scegliendo quello che Lui ha scelto, amando quello che Lui ha amato, cercando di non uscire dall’orizzonte dell’amore, da quel rapporto forte con Lui, come Lui non esce dalla certezza del Padre, perché sia anche di chi lo segue. Le dodici ore del giorno che egli ricorda in occasione della morte e resurrezione dell’amico Lazzaro, sono vissute in pienezza quando sono vissute nella speranza di Lui.
“Nella speranza l’oggi si apre all’orizzonte dell’eternità, e l’eternità viene a mettere la sua tenda nell’oggi; grazie alla speranza il tempo “quantificato” (che non ci basta mai, che è sempre troppo poco) diviene tempo “qualificato”, ora della grazia, tempo favorevole, ora della salvezza, momento gustato nella fede” (C. M. Martini, Credo la vita eterna, Padova 2012 p. 121).
La speranza è la condizione dei figli di Dio riguardo all’avvenire, nella fiducia che “fin da ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo come egli è” (1Gv.3,2). Il Dio che ha fatto suoi il tempo e la morte, ha dato a noi la sua vita nel tempo e per l’eternità. Perciò nella Pasqua di morte e resurrezione è la radice certa della vittoria del’amore. Quella morte di Gesù riempie di luce l’ora della nostra morte. Quell’ora è rigenerata, i cristiani lo hanno capito e custodito, fino al coraggio di chiamarla “ora della nascita”.
Maria è “madre della speranza”, la custodisce e la dona dopo averla vissuta con radicalità sotto la croce. Domandiamole di farcene partecipi.