III DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
(Es 3,1-8.13-15; Sal. 102; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9)
La quaresima è invito per tutti, richiamo per quanti siamo forse fermi nella vita, in atteggiamenti scontati, a considerare il tempo come un dono che permette di fare frutto, un dono prezioso perché l’attesa del Signore su ciascuno si compia. Anche chi non si riconoscesse nella fede e nel pensiero di Dio saprebbe, in una seria etica laica, di avere il debito verso se stesso e verso l’umanità di non lasciare che la vita scorra ripiegata su di sé ed improduttiva. La vita, infatti, è una realtà seria e deve essere vissuta, unica come è, nello spazio dei giorni nella ricerca sincera di armonia tra la libertà e il tempo.
Il tempo è il dono di Dio, la libertà la nostra possibilità.
La parabola del fico va letta e meditata con l’animo grato di chi comprende il valore del tempo, l’amore paziente che lo prolunga con fiducia, e il valore delle occasioni che la vita propone o impone. Non nel senso minaccioso dell’ira di Dio, quasi che Egli voglia ritrattare la fiducia, ma come riconoscenza che accoglie il tempo dalle sue mani per viverlo bene.
Il periodo liturgico della quaresima, che invita alla essenzialità e sobrietà, fa prendere coscienza del rischio che corriamo a motivo della disattenzione, di perdere l’appuntamento con quanto ci viene domandato di vivere. La Chiesa, nell’esperienza della continuità del suo cammino, “esperta di umanità” – come disse Paolo VI – nelle situazioni più diverse, ricorda che il presente è il tempo favorevole e ci invita a non star fermi nelle scontatezze. Perciò oggi ci legge il brano di Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, ricordando che gli ebrei antichi vissero l’epopea del deserto, l’esperienza della nube segno della presenza di Dio, il passaggio straordinario del mare, mangiarono la manna e bevvero l’acqua scaturita dalla roccia. Ma tutto questo non bastò per una vera esistenza libera nella fede. Tutto era ancora segno. Ma quando finì l’epoca dei segni, è rimasta la realtà della persona di Gesù, come ci è stato detto da Luca domenica scorsa: “restò Gesù solo”. A Lui i credenti devono riferirsi in un rapporto personale e costante, che nasce come dono dall’alto nei sacramenti della fede, ma che esige l’impegno quotidiano ad adeguare la vita concreta al rapporto stesso, perché non sia velleitario.
“Chi si ricorda di essere negligente nel cercare la concordia, scuota il suo torpore ridestandosi;
chi pretende di rivendicare i suoi diritti da chi è in debito con lui, pensi bene che anch’egli è in debito con Dio;
chi si vergogna chiedere al fratello di perdonarlo, vinca con un salutare timore la sua perversa vergogna,
affinché, finita e uccisa questa dannosa inimicizia, voi possiate vivere”.
Così scrive s. Agostino.
I fatti di cronaca che il vangelo di Luca riferisce, raccapriccianti per la modalità in cui avvengono, provocano domande su Dio, sulla sua provvidenza, sul perché permette cose simili. I fatti, non raramente, sembrano smentire quella presenza che l’immagine del roveto ardente afferma nel passo dell’Esodo che la liturgia ci ha fatto ascoltare come prima lettura.
Gesù reagisce a quello che gli viene riferito con l’invito, ribadito due volte, alla conversione e con la parabola del fico a cui viene donato ancora un tempo. La liturgia non nasconde gli interrogativi gravi nella vita di fede, ma spinge ad avere attenzione al mistero di Dio, ricevendo dal suo mistero il mistero della nostra vita, che si propone all’insegna della precarietà e della ineluttabilità. È solo nella preghiera silenziosa, nella docilità dell’adorazione, nell’umiltà sincera di chi non prega nella rettitudine di una seria coscienza laica, è solo in questo atteggiamento creaturale che Dio trova lo spazio del farsi sentire presente e dello spiegarsi: “Io sono il Dio di tuo padre … ho osservato la miseria del mio popolo … conosco le sue sofferenze … sono sceso … per farlo salire”.
Da questo scendere concreto di Dio nella storia, povera storia di miseria e di peccato, siamo invitati alla condivisione responsabile della realtà umana, precaria e minacciata non solo dagli avvenimenti cosmici, ma dal disimpegno di tanti che provoca riflessi tragici nella vita della gente.
Oggi la coscienza di fede non tollera di porre la certezza del Dio presente nella rassegnazione supina a quello che diciamo “ineluttabile”. Perciò nella Chiesa e nella società si pone con forza la “questione morale”. Se le responsabilità non vengono vissute, se il potere viene gestito senza aggancio al cuore di Dio, se non si è operatori di speranza, allora responsabilità e potere conducono ad individualismi sempre più forti ed alla corruzione.
Non basta dire che i propri riferimenti sono al cristianesimo: essi devono essere praticati per essere veri. Non basta affermare che il vangelo è la propria motivazione se non lo si vive.
“Chi mette per fede a bilancio l’eternità, non può tradire la fiducia altrui nei bilanci aziendali” (Barbiellini Amiadei)
Dicono gli studiosi del vangelo di Luca che il brano del capitolo 13 in questa liturgia contiene pensieri e parole riconoscibili come proprie del Signore e trasmesse con fedeltà. Li elenco come titoletti su cui riflettere:
- la convinzione che tutti siamo peccatori e bisognosi di conversione;
- l’abitudine ad osservare e valutare i fatti di cronaca nell’ottica della vicinanza al Regno di Dio, che si rende più vicino attraverso quei fatti, indipendentemente dalla responsabilità di quanti ne sono coinvolti;
- il rischio di andare incontro ad un esito negativo dell’esistenza ricevuta in dono, a motivo del rifiuto del Vangelo;
- l’errore grave di vedere nelle malattie e negli incidenti le conseguenze dei peccati personali e l’educazione a scoprire l’amore di Dio negli avvenimenti naturali e nelle esperienze personali;
- la valutazione del comportamento delle persone senza per questo giudicarle moralmente.
Gesù, insomma, interpreta gli avvenimenti, li legge come segni del Regno di Dio che viene, li vede come invito ad essere pronti. La sua attenzione è centrata e presa dalla fede nel Padre, dalla necessità di accogliere l’offerta di perdono da parte di Lui, resa credibile ed attuale dalla sua presenza e dalla sua predicazione. Perciò vuole scuotere gli indecisi.
Scrive sant’Agostino su questa pagina del Vangelo: “Chi si ricorda di essere negligente nel cercare la concordia, scuota il suo torpore ridestandosi; chi pretende di rivendicare i suoi diritti da chi è in debito con lui, pensi bene che anch’egli è in debito con Dio; chi si vergogna di chiedere al fratello di perdonarlo, vinca con un salutare timore la sua perversa vergogna; affinché, finite e uccise queste dannose inimicizie, voi possiate vivere” (Agostino, su Lc.13)
La Quaresima è un richiamo alla necessità e all’urgenza di non occupare sterilmente il tempo, di non viverlo in maniera indebita. La vita perduta, nel messaggio di Gesù, è il tempo lasciato scorrere senza che in esso sia maturato il disegno di Dio sulla vita di ciascuno, in una libertà falsa, di passività e di disimpegno, che pretenderebbe di
esprimere se stessi senza portare frutti. Dice Gesù che i figli di Dio sono impegnati ad usufruire del dono dello spazio temporale perché si estenda lo spazio della fecondità dei frutti. Il tempo, dunque, come spazio per la pazienza e la fecondità.
Ma, oltre ad essere un richiamo alla responsabilità della vita ricevuta in dono, la Quaresima è l’invito a lasciarsi ricondurre al senso più profondo di questa responsabilità, e lo ripropone nella liturgia di questa terza domenica con la pagina dell’Esodo che ci fa rivivere la manifestazione del Signore a Mosè.
“Io sono colui che sono”. È Dio stesso a presentarsi. Si fa presente all’uomo mentre è intento alla quotidianità del suo lavoro, ma mentre non è distolto dall’attenzione al mistero che avvolge ogni vita e che sempre si ripresenta alla mente ed al cuore dell’uomo. Egli è il presente. Si dice in terza persona: “Io sono colui che è, qui, con voi e per voi … per farvi salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa”.
È un mistero di trascendenza incandescente di amore che prorompe nell’esterno da sé, nella creazione, in totale gratuità, per istituire una relazione permanente con le sue creature perché diventino il suo popolo. Il fuoco che infiamma il roveto e non lo consuma è il segno di questo mistero dell’amore che si sporge fuori di sé con fedeltà eterna. Non si tratta di una teoria metafisica, ma di un’esperienza già vissuta dai patriarchi antichi, da cui ha origine la relazione tra “Io sono” e l’“eccomi” della creatura, amata intensamente come dice la chiamata con il nome proprio pronunciato due volte. “Interroga pure i tempi antichi … Si udì mai che un popolo abbia udito la voce di Dio parlare da fuoco, come l’hai udita tu …?” (Deut.4,32.33).
Avere fede è interpretare lo spazio e il tempo come luogo per l’accoglienza della presenza che si fa vicina nella quotidianità, e per imparare a riamare “il Signore tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Deut.6,5). È da questa relazione accolta e custodita, fatta propria e coltivata nell’intimo, che nasce l’esperienza della paternità che feconda il cuore e lo rende capace di frutti buoni, quelli di cui Gesù ha desiderio, per la fraternità umana. È quello che il Vangelo ci dice e ci invita a fare nostro.
Il mistero di Dio, anche quando viene rifiutato come un mito e accantonato come insignificante, così come accade in tanti cuori e in tanti ambienti, continua a ripresentarsi all’uomo come fuoco che brucia e lascia vivi, finché non nasca il frutto buono della resa, del consenso.
È Gesù che squarcia il mistero rivelando Dio come Padre, Abbà, come amore per il Figlio, a cui il Figlio corrisponde nella fede amante. Questa reciprocità senza riserve e fino alla fine è la dimora dove sono invitati a vivere gli uomini.: “Questa è la vita eterna, che conosciamo te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv.17,3).
Il dono di oggi è di tornare alla radice del Vangelo.