V DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
(Is. 43,16-21; Sal. 125; Fil. 3,8-14; Gv. 8,1-11)
La liturgia di oggi ci invita concludere il nostro cammino quaresimale alla luce del gesto di Gesù.
Ci troviamo di fronte ad un peccato grave ed evidente nella flagranza. C’è una donna sola in mezzo ad un crocchio di gente con il prurito della curiosità e la smania di giustizia rapida che chiuda il caso. Gesù è là, guardato come uno che, provocato direttamente, dovrà per forza prendere una posizione che comunque gli verrà imputata come sbaglio (di durezza di cuore oppure di connivenza), a motivo della inimicizia pregiudiziale che lo circonda nei giorni che precedono la sua passione.
Gesù è là, nella verità e nella mansuetudine. Non tollera quel chiacchiericcio e quella morbosità sul come andrà a finire. E crea la condizione per la parola che ha in cuore per la donna.
Mette i presenti davanti alla realtà del male e dell’ambiguità che abita in ciascuno, manifesta l’impossibilità di un giudizio precipitoso, fa sentire il disagio che la verità diretta suscita nei cuori, costringe i presenti ad allontanarsi, fino a restare solo. Dirà Agostino con lo stile sintetico ed espressivo che gli è proprio: “Restano solo loro due: la misera e la misericordia”.
Nel silenzio, prima di parlare, traccia dei segni con il dito nella polvere del luogo dove avviene l’incontro. Come se volesse ricordare Mosè che porta dal monte al popolo “le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore aveva detto sul monte” (Deut. 9,10). Come volesse insegnare la “sua” legge, quel comandamento nuovo che promulgherà nella vigilia della passione, la norma delle norme del vivere cristiano, che sarà la legge unica e fondamentale della Chiesa, l’amore al fratello qualsiasi possa essere la sua condizione di vita: quella misura alta dello sguardo sugli altri e della relazione con essi che nasce dalla certezza che l’uomo, anche quando ha sbagliato e continua a sbagliare, vale più del suo errore
“Non peccare più”: con mitezza indica la gravità oggettiva del peccato, senza alcuna sottovalutazione del male, di cui – nel Discorso della montagna – aveva detto la negatività non solo per l’adulterio sessuale, ma per quello del cuore (Mt,5,28).
“Va’”, con l’imperativo autorevole che nasce dal perdono, spalanca la porta della vita, che, rinnovata dalla misericordia, avrà nuove possibilità. “Aborrendo la colpa e rigettando il peccato, condanna la stesa colpa, ma salva la donna, rivelando insieme dolcezza e rettitudine: dolcezza nella sua indulgenza, rettitudine nel suo amore alla verità” scrive Tommaso di Aquino.
Gesù dice con il suo gesto che l’uomo è liberato, nella coscienza, dal male che è in lui dal rifiuto sincero di quanto gli toglie identità e pace, ed è salvato dall’accoglienza che lo ricrea. Con la conseguenza concreta che nessuno ha mai il diritto di scagliare la pietra sui fratelli che si mostrano nel male. L’atteggiamento che nasce dalla mansuetudine di Cristo fatta propria dal credente, è la trepidazione di chi si conosce esposto al peccato, sia del comportamento, sia del giudizio; e contemporaneamente la sensibilità per aiutare fraternamente a rifiutare il male, a confidare nel perdono, perché nessun peccato è mai così grande quanto l’amore misericordioso che si rivela sulla croce. Questo appartiene alla Chiesa intera, a ciascuno di noi nella memoria della misericordia ricevuta. Cristo in noi, portando la sofferenza a causa del peccato, è infinitamente compassionevole. Ma il fariseo che continua d abitare in noi, che pensa il perdono a poco prezzo, rischia di essere rigoroso in maniera intransigente, lasciandoci nel peccato di durezza di cuore e armando le mani di pietre omicide: quelle di chi, anche nella comunità cristiana, ha lo sguardo negativo e giudicante, di chi non comprende le difficoltà dei giovani, di chi giudica fallite le coppie divise …
“Essere trovati in Cristo” dice Paolo ai Filippesi. Significa partecipare all’essere di Gesù nella mansuetudine e nella verità. E’ in questa direzione che occorre pensare e testimoniare oggi la vita spirituale cristiana. E’ come una tensione costante ad avere come “giustizia non quella non quella derivante dalla legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo”, sapendo di essere nell’insicurezza: “non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla”.
“Anch’io sono stato conquistato”. Quando Gesù dice alla donna : “D’ora in poi non peccare più”, la ha già raggiunta “con la potenza della resurrezione”.
Celebriamo la Pasqua perché questa potenza ci raggiunga, agisca in noi. E perché la possiamo dire con una vita che testimoni la verità della parola: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. Fare Pasqua è impegno per dare consistenza reale alla promessa di Dio, rendere al presente quello che è stato detto al futuro. Seguire il Risorto sulla sua strada è impegno all’interiorità che si manifesti agli occhi dell’umanità come la “cosa nuova”, profetizzata da Isaia: vivere la condivisione e il perdono, perché si riveli la misericordia di Dio. Scelta di vita non solo intima e contemplativa, ma attiva nella donazione di sé per mostrare quel “lassù”, che Paolo sente come un traguardo che lo ha afferrato.
L’Eucarestia che chiude la preparazione alla Pasqua ci veda “afferrati”!
Questo brano, da sempre considerato dalla Chiesa autentico, di carattere ispirato e di valore storico, con molta probabilità è da attribuirsi all’evangelista Luca, piuttosto che a Giovanni.
Gesù è a Gerusalemme per la festa dei “tabernacoli”, giorni faticosi per l’insegnamento e la dialettica con chi lo contestava. Va sul monte a pregare, come sempre alla vigilia di scelte importanti e di insegnamenti forti e solenni, per ridiscendere all’alba nel tempio dove incontra “tutto il popolo”.
Si direbbe che il Signore abbia voluto scegliere come luogo il tempio dove è proclamata e spiegata la Parola della rivelazione e come destinatario “tutto il popolo” per l‘annuncio del vangelo della misericordia. La giustizia farisaica non distingue il peccato dal peccatore, che perciò devono essere eliminati insieme. Ma la giustizia di Dio, che i credenti sono invitati ad accogliere e testimoniare, senza negare la negatività del peccato, ha come fine il recupero del peccatore.
Uno sguardo al testo che conosciamo ed ai protagonisti di esso.
“Gli scribi e i farisei gli condussero…”. Sono i maestri e gli esperti della tradizione. Sanno quello che avrebbe fatto Mosè in una situazione del genere, ma vogliono mettere il giudizio di Gesù contro quell’insegnamento per avere il modo di accusarlo.
La donna, colta in un errore tragico, consapevole di quello che la attende, angosciata perciò, è strumentalizzata, come un oggetto, senza nessun riguardo alla persona, ma “per aver motivo di accusarlo”.
Gesù sembra voler distogliere lo sguardo dalla scena, è disgustato nella propria sensibilità ricca di compassione e di fiducia nelle donne, a cui si affida personalmente nel lasciarsi aiutare e nel compito di testimoniarlo; non desidera lasciarsi coinvolgere in un dibattito generato dalla malevolenza, a tutto discapito della creatura che è davanti a lui. Poi cede all’insistenza della domanda petulante: “Tu che ne dici?”, ma la capovolge proponendo che chi tra di loro si sentisse a posto con la propria coscienza si facesse avanti e scagliasse la prima pietra della lapidazione. Così, nel silenzio fattosi pesante e nel suo muto tornare all’atteggiamento di disinteresse, gli scribi, i farisei, il popolo si allontanano alla chetichella “cominciando dai più anziani”, lasciando soli la donna e Gesù, “la misera e la misericordia” (Agostino).
Il silenzio pesante diventa sacro, di pace senza angoscia, confidenziale e commosso: “Si alzò”, forse le avrà passato una mano nei capelli, le avrà dato una carezza; fino a quel momento nessuno le aveva rivolto la parola, lui le da del “tu”, non è più un oggetto, un caso di cronaca, un colpevole da punire, ma una persona amata da Dio, che può avere rapporto con lui, che viene da Dio. E lei può parlare, gli dice con rispetto, “Signore”, che nessuno la ha condannata. E su questa reciprocità di fiducia offerta ed accolta può essere pronunciata la parola di rassicurazione ed esortazione. “Neanche io ti condanno, va’ e da ora in poi non peccare più”.
La vita fisica che, secondo gli accusatori, avrebbe dovuto esserle tolta, le è restituita, “Neanche io ti condanno”, dal Signore della vita che le offre la possibilità di una novità di esistenza nel giusto rapporto con Dio. Così l’incontro con Gesù, nato nella e dalla miseria, diventa porta per una nuova qualità di vita che Dio stesso, negato nel peccato, le offre a testimonianza che il suo cuore è più grande del nostro e che l’Amore vince anche la morte.
Nella tradizione biblica l’adulterio è un peccato di estrema gravità, perché macchia l’immagine pura dell’alleanza, descritta più volte come matrimonio fedele tra Dio e il suo popolo e, nel Nuovo Testamento, tra Cristo e la Chiesa sposa. Alla donna colta in adulterio, Gesù concede un’assoluzione piena in vista di una vita rinnovata che testimoni il primato della misericordia, ricevuta e donata nei rapporti fraterni.
“Aborrendo la colpa e rigettando il peccato – insegna Tommaso d’Aquino – il Signore condanna la colpa ma salva la donna, rivelando insieme dolcezza e rettitudine: dolcezza nella sua indulgenza, rettitudine nel suo amore per la verità” (Comm. a Giovanni).
Questo brano è perciò custodito dalla Chiesa come “il vangelo della misericordia”. Nel tempo che viviamo, in ogni ambito della convivenza e ad ogni livello di relazione, è più che mai urgente riscoprire che la carità fraterna ha la sua manifestazione più diretta e autentica nella misericordia.
Lo ha ricordato il papa Francesco il 14 marzo ai sacerdoti incaricati del ministero della penitenza nella basilica di Santa Maria Maggiore, ripetendo la raccomandazione ad essere misericordiosi.
È l’Eucarestia che mette in ciascuno di noi e nella Chiesa l’energia e la capacità di andare avanti, di “correre” nella conformazione a Cristo misericordioso. La sua misericordia sta appostata sulla strada di ciascuno di noi per penetrarci e rendere la vita il luogo in cui si riveli la sua presenza.